«Vittime di femminicidio non sono solo le donne che vengono uccise ma anche i loro figli che restano orfani e noi nonni che proviamo a prendercene cura, troppo spesso sentendoci soli». Lo ripete da sempre Vera Squadrito, la mamma di Giordana Di Stefano, la 20enne uccisa con oltre 40 coltellate nell’ottobre del 2015 nelle campagne di Nicolosi (nel Catanese) dall’ex fidanzato Luca Priolo che è stato condannato a trent’anni. Con il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile è nato il progetto Respiro che coinvolge il Sud (Campania, Calabria, Basilicata, Puglia) e le Isole. L’obiettivo è quello di farsi carico della formazione e dell’inclusione socio-lavorativa degli orfani speciali, di sostenere le famiglie affidatarie e i caregivers e di creare o potenziare la rete delle realtà che si occupano del tema.
In Sicilia i partner del progetto sono il Centro famiglie e il centro antiviolenza Thamaia di Catania. «Si tratta di una sperimentazione pionieristica che mira a creare una rete per prendersi carico degli orfani speciali – spiega a MeridioNews Anna Agosta, la presidente di Thamaia – Spesso, una volta che si sono spente le luci dei riflettori della ribalta mediatica sul caso di femminicidio, anche i figli diventano invisibili. Questa iniziativa è di fondamentale importanza anche perché – aggiunge Agosta – si inserisce nel nostro lavoro di contrasto alla violenza maschile sulle donne». Il progetto è stato selezionato da Con i bambini perché, come ha spiegato il presidente dell’impresa sociale Marco Rossi-Doria durante l’evento online di presentazione, «quello dei bambini e dei ragazzi che hanno avuto la mamma uccisa, spesso davanti ai propri occhi, da un padre che poi si è ammazzato o dovrà affrontare una lunga pena detentiva, è un argomento così tragico che si pensa di non riuscire a intervenire».
E invece qualcosa si può fare, anche pensando a chi resta a prendersi cura degli orfani e alla formazione di intere comunità locali. Il progetto Respiro prevede, infatti, la costituzione di équipe regionali di emergenza per gli aspetti psicologici, sociali ed educativi da mettere in campo attraverso 50 protocolli di intesa con enti pubblici e del terzo settore nei vari territori delle regioni coinvolte. Non solo riparazione, ma anche prevenzione con i 450 laboratori da attivare nelle scuole: sulla capacità di chiedere aiuto in situazioni di difficoltà per i bambini e sugli stereotipi di genere per gli adolescenti, oltre a quelli per formare i docenti. Un progetto per cui sono stati messi in campo risorse per un totale di tre milioni e 300mila euro in quattro anni. «È importante utilizzare fondi pubblici per questi fini – ha sottolineato l’onorevole Paolo Siani, vicepresidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza che è anche un pediatra – Sappiamo che un bambino maltrattato o che assiste alle violenze ha molta più probabilità di altri di diventare un adulto maltrattante».
Una criticità condivisa pure dalla senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi. «Dobbiamo prenderci carico della sofferenza di oggi che, altrimenti, rischia di moltiplicarsi. In questa direzione va la legge (4/2018), approvata ormai quasi quattro anni fa, che tutela “gli orfani a causa di crimini domestici”. Ad oggi, però – ammette la senatrice – di questa norma ci sono ancora aspetti che non funzionano bene a partire dalle procedure e dalle burocrazie che hanno tempi biblici». Che i bambini e i ragazzi rimasti senza entrambi i genitori non possono aspettare. Come ha testimoniato Vera Squadrito che, da quando la figlia è stata ammazzata dall’ex fidanzato sette anni fa, si prende cura della nipotina Asia e, insieme ad altre persone nella sua condizione ha fondato l’associazione Sorelle di sangue. «Sono la voce di tante nonne che hanno dovuto seppellire una figlia e a cui sono stati affidati i nipoti. E il contesto – ha raccontato Squadrito – spesso demoralizza, fa paura e ci fa sentire soli nel buio». In base all’esperienza vissuta in prima persona, la donna ha sottolineato quanto sarebbe importante «la figura di un tutor che ci assista per relazionarci con il tribunale dei minori e con gli assistenti sociali». Non solo questioni burocratiche ma «anche per avere un sopporto per aiutare i ragazzi a superare il trauma che ha devastato la loro vita ma di fronte a cui non si possono arrendere».
Ed è il caso di Giuseppe Delmonte. Il figlio di Olga Granà, la donna uccisa dal marito con sette colpi di ascia ad Albizzate nel Varesotto (in Lombardia) nell’estate del 1997 quando lui era appena diventato maggiorenne. Durante l’incontro, si è collegato dal corridoio fuori dalla sala operatoria dell’ospedale in cui lavora. «Oggi ho 45 anni e posso dire che il mio lavoro mi ha salvato perché io, al contrario di mio padre, le vite contribuisco a salvarle», ha detto Delmonte ricostruendo il suo percorso che non è stato semplice. «L’orfano diventa tale l’indomani e non può aspettare anni per la presa in carico sia dal punto di vita psicologico che economico – ha sottolineato – Ma servono interventi immediati per non rischiare che le vite sprecate siano più di quella che è finita per mano dell’assassino».
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