Recluso dentro la propria casa. Telecamere ovunque, con il sistema di sorveglianza collegato sia con la vigilanza privata che con le forze dell’ordine. Senza lavoro, andando avanti con l’ausilio dello stipendio di un figlio impiegato nell’esercito. E’ stata questa la vita per due anni di Arnaldo Giambertone, un imprenditore edile vittima di mafia che nel 2016 ha denunciato i propri estorsori. E che però, da quel momento, ha visto cambiare la sua esistenza in peggio. Con un esaurimento nervoso alle spalle, Giambertone sta provando a rimettersi in piedi.
Oltre al fatto di aver vissuto rinchiuso nella sua abitazione («il sabato e la domenica ormai resto in pigiama nella mia stanza, non porto più neanche i cani fuori»), per paura di nuove ritorsioni da parte del potente mandamento mafioso di San Lorenzo Arnaldo Giambertone è finora stato un anonimo. Di lui le cronache hanno parlato genericamente come di un imprenditore edile. Ora, a MeridioNews, sceglie invece di metterci la faccia. Ma senza l’ausilio dello Stato è tutto dannatamente complicato. L’unico provvedimento a suo favore è la sospensione dei debiti con la pubblica amministrazione: emesso a marzo 2019, ha validità di due anni. Un atto che ha fatto economicamente respirare l’imprenditore edile, ma con la scadenza che appare già dietro l’angolo. Il rischio, insomma, è di restare nuovamente isolato.
Che poi è la condizione essenziale per cedere alle pressioni mafiose, mai terminate nel caso di Giambertone. «Ho denunciato i miei estorsori nel 2016 – racconta – e da allora sono rimasto fermo dal punto di visto lavorativo per tre anni. Ci siamo ritrovati sul lastrico, a rimuginare sempre se avessimo fatto la scelta giusta. Mi chiedo quale sarebbe la mia sorte se avessi invece continuato a pagare il pizzo. Anche perché il mio settore è in crisi da anni. Attualmente sono sottoposto a vigilanza dinamica radiocontrollata, sia a casa che nei cantieri».
Sottoposto a continue richieste di pizzo da parte del mandamento mafioso di San Lorenzo, con le sue denunce Giambertone ha dato vita all’operazione Talea, che ha visto tra gli arrestati anche Giuseppe Biondino, l’astro nascente della mafia palermitana e figlio di quel Salvatore Biondino che è stato, tra le altre cose, l’autista personale di Totò Riina. Nomi importanti, insomma, che hanno portato poi all’omonimo processo – diviso successivamente in due tronconi. Nel primo, quello che riguarda anche gli episodi segnalati dall’imprenditore, a giugno 2019 si è chiuso il processo di primo grado per coloro che hanno chiesto il rito abbreviato.
«Attendiamo l’appello – dice – perché la sentenza di primo grado ci ha lasciato insoddisfatti: su 37 imputati 13 sono stati assolti, e le condanne degli altri 24 sono comunque risibili. Eppure la mia vita è cambiata, da quando ho denunciato. Ho ricevuto minacce e intimidazioni, molti clienti hanno preferito abbandonarmi. Nel settore dell’edilizia, vuoi o non vuoi, hai sempre a che fare con quella gentaglia». Giambertone è prossimo ai 55 anni, ha iniziato a lavorare giovanissimo nel settore: già a 19 anni, nel 1984, sceglie di dare un mano presso l’azienda di famiglia. Costretto a lasciare gli studi in Architettura, il giovanissimo Arnaldo viene subito a contatto con esponenti della Cosa nostra più feroce della storia, quella corleonese. «A quell’epoca la vita valeva niente, non c’era la sensibilità di oggi, per cui mi sono dovuto piegare alle richieste di pizzo – afferma l’imprenditore edile – Da quando ho scelto di denunciare i miei familiari mi hanno voltato le spalle. Io comunque ho scelto di dare una svolta netta al passato».
Da settembre 2019 Arnaldomaria Tancredi Giambertone (questo il nome completo) sta provando a rimettersi in sesto. Insieme a Daniele Ventura, il giovane palermitano che ha denunciato i suoi estorsori a Borgo Vecchio ma a cui lo Stato non riconosce le adeguate tutele. Due vittime di mafia, insomma, che provano a farsi coraggio a vicenda. «La mia è una storia complessa, con enormi sacrifici che mi porto sulle spalle, insieme alla mia famiglia. Ho assunto Daniele, nonostante io stesso sia ancora in difficoltà – dice Giambertone – Oggi sono davvero stanco, perché vedo il silenzio totale da parte di chi dovrebbe tutelarci. Sono stato a un passo dal trasferirimi fuori dall’Italia: ero andato a Malta ad agosto 2019, avevo delle opportunità di lavoro lì. Ma ho resistito appena 48 ore. Mi sono fatto un esame di coscienza e ho scelto di ritornare, non potevo dargliela vinta».
Ripartire, comunque, non è quasi mai facile. «Avevo perso l’abitudine al lavoro, inoltre mi sentivo braccato e avevo paura per la mia incolumità. Ancora di più perché, appena un mese dopo, c’è chi è venuto a disturbarmi ancora una volta qui in cantiere. A questo episodio ne sono succeduti altre tre, richieste di estorsione che ho ancora una volta denunciato. Hanno fermato persino mia moglie, mentre in cantiere a novembre abbiamo subito dei danneggiamenti. Tanto che ho preferito mandare fuori l’altro mio figlio, che lavora come ingegnere edile. Negli ultimi tempi le forze dell’ordine hanno aumentato i controlli, sia in cantiere che a casa, segno che il pericolo c’è sempre».
Quale può essere dunque lo stato d’animo di chi prova a mettersi alle spalle un incubo, che però continuamente ritorna? Soprattutto quando gli strumenti per combattere la paura di una vittima di mafia sembrano esserci, almeno a parole, ma poi non vengono utilizzati? «Mi sento abbandonato dallo Stato – osserva ancora Giambertone – Faccio solo un esempio. Nel 2017 i ladri hanno svaligiato un mio cantiere: dai ponteggi alle betonieri, dai demolitori ai barili. Con l’associazione Addiopizzo abbiamo allora presentato una richiesta di ristoro di 20mila euro, quantomeno per comprare le prime attrezzature, una richiesta che comunque era molto minore rispetto alla reale entità del furto. A distanza di un anno nessuna risposta, quando per legge le somme dovrebbero essere garantite entro quattro mesi. Io sono l’unica vittima di mafia che non ha percepito un euro dallo Stato: nè come ristoro, né come provvisionale. Mi è stata data sì la sospensione dei debiti con la pubblica amministrazione, ma a questo dovrebbe essere associato un risarcimento, di cui invece non ho notizia».
L’auspicio di Giambertone, adesso, è che «le nostre battaglie come vittime di mafia vengano ascoltate. Le leggi ci sono, vanno applicate. Personalmente vorrei solo tornare a fare il mio lavoro, senza avere ancora a che fare con questa gentaglia che rovina la vita delle persone».
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