Sei relatori al tavolo del seminario. Ciascuno ha esposto, in base alle proprie competenze, il suo punto di vista sui minori cosiddetti “difficili”. Attraverso le loro testimonianze è venuta fuori una una mappa del disagio infantile: un problema che riguarda e riguarderà l’intero assetto sociale e che ha tante sfaccettature. Non a caso l’incontro organizzato dalla Caritas di Catania lo scorso 31 marzo nell’aula magna della facoltà di Scienze della Formazione – subito dopo l’introduzione di padre Valerio Di Trapani – ha dato spazio alle immagini dei bambini con il cortometraggio “Mettimi a fuoco, mettiti a fuoco”, realizzato dal centro Talita Kum nel quartiere Librino.
Ma chi sono i minori difficili? Questa la domanda che la dottoressa Francesco Pricoco, giudice del Tribunale dei minori di Catania e Liana Maria Daher, sociologa e docente alla facoltà di Scienze della Formazione si sono poste: sono i bambini ad essere difficili, o è il contesto nel quale vivono ad essere difficile? È giusto stigmatizzare così i minori, apponendo un’etichetta terminologica discriminante?
Le risposte sono arrivate attraverso un filmato intitolato “Mare nostrum” e realizzato dai bambini dell’istituto comprensivo San Giorgio di Catania: il disagio proviene dalla bruttezza che si accompagna alla sporcizia, allo squallore, all’abbandono. «È vero, viviamo in una realtà difficile dove la normalità va conquistata e l’emergenza fa parte del quotidiano; sistematicità e continuità dell’educazione scolastica sono assolutamente necessarie – secondo la dirigente della scuola, Brigida Morsellino – e le aule devono configurarsi come ambiente accogliente, la scuola deve far stare bene».
Interessante l’intervento di suor Santina Marini dell’Ufficio Pastorale Universitaria: «È necessario avere il coraggio dell’interrogazione radicale: il clero tende a rispondere nell’immediato attraverso la carità, a mettere, insomma, una toppa. Dovremmo invece chiederci perché nella nostra civiltà abbiamo prodotto ferite così profonde; perché i minori difficili sono la denuncia eclatante di un sistema educativo fallimentare».
La sesta relatrice, Giuliana Gianino, chi legge questo giornale la conosce bene. E’ una giovane instancabile, responsabile del centro Talita Kum di Librino che da anni si impegna per seguire e tutelare l’infanzia dei bambini nati in uno dei quartieri più a rischio e isolati della città.
Giuliana, il centro Talita Kum è l’esempio di come sia possibile inserire con successo una struttura sana in un territorio che sano non è?
«In realtà il Talita Kum non è un contenitore che si è insediato in un territorio, il Talita Kum è la realizzazione di una comunità fatta anche di minori che insieme, pian piano ha fatto un cammino. Quindi il Talita Kum è Librino, è quel quartiere, non è qualcosa di facile, di buono che si inserisce in qualcosa di difficile, ma rappresenta le potenzialità delle famiglie, dei ragazzi che vivono in quel quartiere».
In che misura le istituzioni sono assenti a Librino? E può essere considerato un bene quest’assenza, dato che il centro è così gestito da volontari, senza interessi politici o economici?
«In effetti la parte del quartiere nel quale ci troviamo ha davvero un vuoto istituzionale forte, che qui al sud viene subito riempito dalla mafia; e quindi qui i ragazzi crescono in un contesto sociale con delle regole ben precise, con una sorta di welfare delle cosche che risponde ai loro bisogni, aiutandoli quando finiscono in carcere o quando hanno un problema; c’è una canzone sul palazzo di cemento che dice “guarda questo ragazzo, lo stato non l’aiuta e deve portare da mangiare in famiglia” e quindi quasi idealizza e giustifica come comportamento socialmente positivo quello che si fa in quel palazzo (spaccio, ndr), come se non esistessero altre opportunità per poter portare il pane in casa. Quindi la nostra presenza può anche essere un pungolo per le istituzioni, perché qui l’unica istituzione presente è la scuola, sebbene con molte difficoltà».
Durante il convegno è stato detto che molte studentesse di Scienze della Formazione sono restìe a svolgere il tirocinio presso la vostra struttura perché “si spaventano”. Ma esistono situazioni a rischio legate alla vostra attività?
«Io non credo che non si venga per paura, credo che semplicemente, c’è un motivo per cui la “periferia” si chiama così, è la distanza dal centro; immagino quindi che una ragazza senza macchina possa avere difficoltà a raggiungerci, che sono poi le stesse difficoltà di chi vive lì: chi non possiede una macchina ha davvero problemi nel mettersi in rete con tutta la città. Io ho studiato proprio Scienze della Formazione, e non riesco ad immaginarmela una studentessa che ha paura; che non abbia sufficienti informazioni invece sì, anche se poi per arrivare a Librino è sufficiente prentere l’autobus di linea 555 da piazza Alcalà… Troverebbero tanti bambini e ragazzi speranzosi, con tanta voglia di abbracciarle. E da psicopedagogista posso assicurare che venire da noi è un’esperienza importantissima, da noi nulla è improvvisato, c’è sempre una progettazione educativa, dove c’è un vissuto quotidiano pedagogico che ogni giorno si ripensa, si rivaluta e cammina insieme al ragazzo».
Si è parlato di bellezza, colori, ripensamento estetico: è la bellezza la chiave di volta per il riscatto?
«Sembra molto retorico ma sì, è la bellezza dell’umanità, dei bambini e delle mamme. Le donne che stanno con noi sono quelle che ancora portano avanti le famiglie, sono la loro forza. Ma dobbiamo lavorare anche sulle possibilità, individuali e della società: vi sono più livelli da costruire o ricostruire, è necessaria l’integrazione di più istituzioni per formare un tessuto. Molte periferie, come Librino, non sono state costruite intorno all’uomo: manca la piazza per l’incontro, manca l’orizzontalità, sostituita dalla verticalità dei palazzi».
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