Giulio Cavalli si occupa di mafia e vive sotto scorta. Eppure di mestiere non fa il magistrato o il giornalista: fa lattore, e non gli piace parlare di se stesso. Questanno gli è stato assegnato il Premio Fava Giovani. Step1 lo ha intervistato
«Racconto le storie degli altri». E la mafia vuole ucciderlo
Secondo Giulio Cavalli esiste una strana isola, in cui i libri si ricordano solo per i capitoli non scritti e la dignità è obbligatoria solo per i bambini. Un’isola con una casa di marzapane e un matto che urlava parole che non si dicono. Il matto si chiamava Giuseppe Fava e l’isola è la Sicilia, con le sue contraddizioni e i suoi silenzi omertosi ed assordanti. Giulio Cavalli, scrittore di teatro e attore, ha vinto la terza edizione del premio Fava Giovani e vive sotto scorta dal 2007 a causa dei suoi spettacoli di denuncia contro la mafia e la collusione. Martedì scorso, in occasione della premiazione presso il centro culturale Zo di Catania, Step1 lo ha intervistato.
Sei un attore e un autore teatrale; è inusuale che una persona che si occupa di teatro sia sotto scorta perché tratta un tema come quello della mafia. Da che cosa è nato questo tuo interesse verso l’argomento?
«Io scrivo di teatro, ma in realtà scrivo degli articoli di antimafia su giornali che si occupano di mafia, che poi trasporto teatralmente e quindi credo che l’astio nei miei confronti sia dovuto probabilmente all’altra attività che svolgo. E succede, magari, che noi in Italia abbiamo imparato abbastanza bene ad impermeabilizzarci agli articoli di giornale e di conseguenza quando un atto processuale o un articolo di giornale viene trasportato sulla scena, questo assume poi una forza che è abbastanza inusuale e probabilmente paghi questa diversa forma di comunicazione».
Da cosa è nato lo spezzone che hai letto ad introduzione della serata del Premio Giuseppe Fava?
«Purtroppo, per la vita che faccio, ho delle grosse difficoltà a produrre spettacoli teatrali e mi trovo spesso in giro. È un po’ quello che si crea quando diventi più “testimonianza” che effettivo portatore di storie. Anche se finora sono riuscito a non raccontare la mia storia e a raccontare, invece, quella degli altri. Quando mi hanno chiamato per il premio Fava, a cui io tengo moltissimo perché Pippo Fava è molto vicino al mio lavoro (forse l’unico in Italia), ho pensato di scrivere una cosa sull’argomento. È stato un discorso di ringraziamento per aver ricevuto il premio nella forma che mi è più consona».
Hai detto che racconti la storia degli altri ma non vuoi raccontare la tua. Perché?
«Perché non bisogna sprecare il tempo a raccontarla. E perché il lato interessante, che è un lato penoso e voyeristico, appartiene a me e ad altre settecento persone in Italia che sono sotto scorta. Non mi sembra assolutamente interessante, anzi mi sembra irrispettoso nei confronti di gente che è sotto scorta da quarant’anni come Caselli. Mi chiedo allora perché c’è questa indifferenza, perché non si è mai andati a chiedere a Caselli che cosa voglia dire “fare”. E poi è una cosa strettamente personale. Io mi prostituisco al palco, ma ho una decenza».
Un altro personaggio che ha una storia particolare, Roberto Saviano, ha deciso di raccontarla. Cosa ne pensi? Lui afferma che è l’unico modo per proteggersi.
«Allora Giancarlo Caselli non sa proteggersi? È una sua scelta. Su questa cosa, la stampa e soprattutto un certo tipo di stampa ha cercato di metterci contro. Nel momento in cui Cavalli dice “Non la racconto” e lui invece la racconta, allora dicono “Ah, Cavalli e Saviano si odiano”. Siccome Cavalli e Saviano sono due persone che si telefonano molto spesso la sera, non ne siamo scalfiti. E nel momento in cui c’è qualcuno che si mette a violare la tua intimità, ognuno reagisce a suo modo. Io trovo dignità nell’esposizione di Saviano, trovo dignità nel mio modo di essere pudico su questa cosa. Sono degli effetti diversi della stessa cosa. Il problema è che Roberto, anche se in realtà è un pessimista di natura, ha molto ottimismo – rispetto a me – sul fatto che ci sia una categoria di cui bisogna farsi carico. Io invece considero i miei colleghi teatranti una categoria che non mi interessa convertire. Preferisco parlare a tutti gli altri».
Ci sono categorie in particolare che ti interessa “convertire”?
«Tutti quelli che sono disposti a pensare che non c’è una forma di lavoro civile. Mi arrabbio tantissimo quando mi dicono “Saviano fa giornalismo d’inchiesta, Cavalli fa teatro civile”. C’è un modo solo per raccontare i fatti. Il fatto che noi siamo così eccezionali, così facilmente individuabili, è colpa della pavidità dei nostri colleghi. Credo che l’Italia sia un Paese pieno di panettieri civili, tranvieri civili. Altrimenti non farei subire tutto questo ai miei figli e alla mia famiglia. Questa, poi, è una delle differenze forti tra me e Roberto nella gestione della cosa. Io devo tutelare delle persone che non hanno scelto questa vita e a dire il vero nemmeno io ho scelto questa strada. Io sono nato con questa idea di reclamare ciò che è normale. Se poi ciò che è normale diventa eroico in un Paese, non penso che questo sia una mia colpa. Se la stessa storia (quella di Saviano, Cavalli, etc) fa venire voglia a dei giovani giornalisti come voi di andare da Laura Caselli a chiedere che cosa vuol dire vivere per anni in questo modo, allora va bene. Però se bisogna fermarsi a noi… Lo trovo banale, ecco».
Hai detto che sei molto vicino a Fava, da un punto di vista lavorativo. Parlando del premio che è stato consegnato a Sigfrido Ranucci per la sua inchiesta su Catania, cosa noti osservando la Catania mostrata da lui e quella che vedi tu?
«Io credo che le persone come Ranucci siano indispensabili in un Paese che sappia esercitare quella bellissima pratica che è la riflessione e che sappia distinguerla dalla flagellazione. E purtroppo una buona parte della politica ha abituato voi siciliani a flagellarvi come se certe colpe fossero pari al peccato originale. In realtà la Catania raccontata da Ranucci è la Milano di Comunione e Liberazione oggi».
Quindi non c’è questa grande differenza?
«Tenete conto che la prepotenza mafiosa è un fenomeno assolutamente banale perché è gestito da persone assolutamente sub-culturate. E quindi non riesce a specificizzarsi in base ai luoghi. È molto semplice. Il problema è che c’è una Sicilia che ha deciso di alzarsi la gonna e di provare a guardarsi in mezzo alle gambe e c’è invece una Lombardia, per esempio, che è bravissima a nascondersi. Secondo me, localizzare è il modo migliore per il “divide et impera”, che è l’arma migliore per continuare a non raccontare le cose».