Quote rosa solo demagogia? L’affondo di Micciché divide Caronia: «Sostituire le donne in casa è ancora costoso»

Una crociata contro la demagogia. A intestarsi la battaglia sui generis, ancora una volta, l’eclettico presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Gianfranco Miccichè, che nel corso del lungo sfogo affidato qualche giorno fa ai cronisti, a margine della presentazione del nuovo sito web dell’Ars, ha definito le quote rosa «una follia, demagogia pura». Secondo Miccichè, infatti, non ci sarebbe «il 50 per cento delle donne in politica» e così i partiti sarebbero «costretti a non garantire a qualcuno il percorso che vorrebbe fare, perché bisogna trovare donne».

Una posizione destinata ancora una volta a sollevare polemiche. Ma anche a interrogare partiti e movimenti sulle reali possibilità di accesso che vengono offerte alle donne in politica. A cominciare dalla composizione delle liste in vista delle elezioni Europee, è evidente come ancora oggi l’altra metà del cielo sia percepita dalla politica declinata al maschile quasi come un fastidio. Appena qualche giorno fa, raccontando i retroscena della lista della Lega nel collegio Sicilia e Sardegna, MeridioNews svelava come, di fatto, i posti che concorrono realmente a uno scranno a Bruxelles siano destinati a tre uomini, nell’ordine Matteo Salvini, Fabio Cantarella e Igor Gelarda. Donne in lista? Sì, ma in fondo, per partecipare, più che per competere. Si tratta di dinamiche a cui ancora oggi si assiste quasi quotidianamente, in politica ma non solo, nella Lega, così come in tantissime altre organizzazioni partitiche. Ma le donne in politica sono soltanto questo? Caselle da riempire? 

«Le quote rosa? – racconta Valeria Sudano, oggi senatrice Pd – Non si può non considerare che le donne sono entrate in politica in ritardo rispetto all’uomo, per una fase transitoria credo sia giusto mantenere un canale privilegiato. Lo abbiamo visto alle amministrative, questo strumento ha portato più donne a fare politica nei consigli comunali. Se e quando si arriverà a una parità effettiva, allora potremo dire questo strumento normativo superato».

È dello stesso avviso la deputata regionale Marianna Caronia che, di recente, ha aderito agli Autonomisti e che si augura presto «di poter essere estensore dell’abrogazione della norma sulle quote rosa. Vorrà dire che si sarà superato un gap che è ancora molto significativo». Secondo Caronia, che si dice contraria alle affermazioni fatte da Miccichè «perché conosco decine di donne che sarebbero capaci di fare le deputate regionali come e meglio di me», le ragioni della difficoltà nell’accesso delle donne ai luoghi di potere è legata «ai ruoli che tradizionalmente sono assegnati alle donne, non soltanto in casa o in famiglia, ma anche rispetto alla cura dei genitori anziani, o dei parenti disabili. Ci sono ancora degli impegni familiari di cui le donne – aggiunge la deputata – si fanno carico ed è evidente che bisogna avere una elevata disponibilità economica per farsi sostituire».

C’è poi il tema ben più spinoso della selezione della classe dirigente: «Se non c’è – affonda – è colpa dei partiti, ma le donne interessate ci sono eccome, hanno voglia di partecipare e lo fanno laddove vengono coinvolte. Purtroppo i metodi di selezione non sono sempre legati al merito, per cui alla fine escono fuori liste fatte non dalle migliori donne e non dai migliori uomini». Rispetto alle quote rosa poi Caronia non ha dubbi: «Servono a equilibrare una condizione di squilibrio rispetto agli uomini. Ma le donne hanno risorse enormi, la loro presenza nei consigli comunali ha già creato un meccanismo virtuoso, quando hanno la possibilità di essere messe alla prova, dimostrano le loro capacità e costruiscono un consenso tale per cui la prossima volta, magari, non sarà necessario il ticket con un uomo per essere elette».

Anche tra gli addetti ai lavori, tra chi lavora o ha lavorato alla composizione delle liste elettorali nei diversi schieramenti politici, si ammette la necessità delle quote rosa, riconoscendo un oggettivo gap tra i generi. È il caso di Adriano Frinchi, già segretario regionale dell’Udc di Casini in Sicilia e oggi collaboratore di Mimmo Turano alle Attività Produttive. «È chiaro – ammette – che è difficile trovare donne che facciano politica, ma il tema non è quello. Se non si trovano è perché non si consente l’accesso alla politica, tanto alle donne, quanto ai giovani. Anzi, se potessi fare un intervento legislativo, io inserirei le quote giovani. La difficoltà di cui parla Miccichè è che non esistono più i partiti, esistono gruppi di potere che non hanno un’omogeneità che rispecchia il corpo elettorale. I vecchi partiti avevano organizzazioni femminili dalle quali emergevano nomi del calibro di Tina Anselmi, Rosa Russo Jervolino, Nilde Iotti. Lì nessuno aveva il problema di mettere le donne in lista». Tornando al presente, Frinchi afferma che «persino i 5 Stelle col loro discutibile metodo di selezione della classe dirigente, garantiscono una considerevole rappresentanza dell’universo femminile. Ma se le liste le fa un uomo solo al comando e deve tutelare il posto al sole dei soliti noti, è chiaro che anche le donne perdono interesse».

Punta molto alla doppia preferenza di genere, che si augura possa essere estesa anche all’Assemblea Regionale, Sergio Lima, oggi portavoce del presidente della Commissione Antimafia, ma che più volte ha lavorato alla costruzione delle liste elettorali, questa volta a sinistra. Anche Lima ammette che il ragionamento di Miccichè «in parte è vero, perché spesso e volentieri le liste vengono infarcite di donne perché c’è l’obbligo, ma poi magari prendono pochissimi voti. Però è vero anche che la doppia preferenza di genere ha sortito dei risultati importanti. Abbiamo condotto uno studio, evidenziando come la presenza di donne nei consigli comunali in Sicilia sia passata da percentuali risibili a una media del 25-30 per cento. E questo nonostante ci sia stata la riduzione del numero di consiglieri. Questo significa che l’effetto della partecipazione c’è. E non è un caso che all’Ars, dove non c’è la doppia preferenza di genere, il rapporto uomo-donna sia inferiore rispetto ai Comuni siciliani».

Secondo Lima c’è poi un «problema di natura culturale, forse più accentuato tradizionalmente a destra, mentre a sinistra magari c’è stata una attenzione maggiore nel favorire la partecipazione. Questa cosa ha determinato anche una selezione della classe dirigente, per cui adesso si può dire che un numero sempre maggiore di donne ha un consenso proprio, non derivante da una figura maschile a lei vicina, che sia il padre, il marito o il fratello». 

Anche secondo Antonello Cracolici, deputato regionale e dirigente dem, che più volte ha partecipato alla costruzione delle liste elettorali del Pd, ma anche del Pds o dei Ds, «certamente quello delle quote rosa è un provvedimento per certi versi restrittivo. Ma sono convinto che se non ci fossero state queste norme che vincolavano partiti, noi avremmo ancora una rappresentanza istituzionale prevalentemente maschile. Il tema, però, non può essere posto nei termini in cui a causa delle donne non c’è abbastanza spazio per gli uomini. Non è che se sei uomo, allora sei migliore o più in gamba».

Non ne fa, infine, una questione di destra o sinistra Giancarlo Minaldi, docente di Scienze Politiche all’Università Kore di Enna, secondo cui il fenomeno della difficoltà nell’accesso alla politica è «trasversale tra i partiti». Anche se ammette che «rispetto all’applicazione che nella realtà viene fatta delle quote rosa, Miccichè non ha tutti i torti». Nonostante la trasversalità, «qualche distinzione va fatta, perché la militanza nel M5s c’è. Poi sicuramente a destra è un grande problema, perché lì nella maggioranza dei casi la politica è ancora maschio, mentre a sinistra c’è sempre stato un tentativo di aumentare la partecipazione delle donne. Così come nel M5s, che vanta una percentuale di donne elette molto elevata. Bisogna anche ricordare che agli uninominali hanno eletto tutti quelli che avevano candidato, ma anche all’Ars nel gruppo pentastellato c’è una percentuale molto elevata di donne». 

Non a caso, insomma, i 5 stelle si sono storicamente detti contrari alle quote rosa, sostenendo di non aver bisogno di una legge che gli ricordi di candidare le donne. Le ragioni? Secondo Minaldi sarebbero da rintracciare nei meet-up, «che sono oggi forse l’unica forma di militanza organizzata, che loro chiamano attivismo e che, in qualche modo, richiama quello che avveniva nei grandi partiti di massa».


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