“Quo Vadis, Baby?”: eccellente esercizio di stile

Titolo: Quo Vadis, Baby? Regia: Gabriele Salvatores. Soggetto: dal romanzo omonimo di Grazia Verasani. Sceneggiatura: Fabio Scamoni, Gabriele Salvatores. Fotografia: Italo Preticcione. Musica: Ezio Bosso. Montaggio: Claudio Di Mauro. Interpreti: Angela Braldi, Gigio Alberti, Luigi Maria Burruano, Elio Germano. Produzione: Colorado Film/Medusa. Origine: Italia 2005. Durata: 108’.

Salvatores si cimenta con una “trama gialla” e le atmosfere da noir in questo suo ultimo “Quo Vadis, Baby”, senza che però esse siano realmente il centro della sua opera, ma più che altro solo un semplice pretesto, un alibi narrativo per costruire invece una vera e propria lezione-ode alla storia, alla tecnica ed ai “significati” del cinema che a lui più piace.

La cinica, quasi quarantenne, investigatrice privata bolognese Giorgia Cantini, tra uno squallido caso di divorzio ed un altro, si ritrova quasi per caso tra le mani una serie di vhs, in cui la sorella Ada, morta suicida sedici anni prima, racconta come in un videodiario il tumultuoso periodo sentimentale e professionale immediatamente precedente alla sua morte. Giorgia inizierà ad indagare, ma quello che verrà fuori dalla sua ricerca saranno più che altro quesiti sulla propria vita che su quella della sorella.

Gabriele Salvatore, dopo due pellicole come “Denti” e “Io non ho paura” composte assolutamente più da contenuto che da forma, si lancia in un’opera in cui l’oggetto stesso del narrare è semplicemente l’estetica dell’immagine. La struttura da thriller è infatti in “Quo Vadis, Baby” (titolo ricavato da una famosa battuta di Brando in “Ultimo tango a Parigi”) solo una scusa artistica (i supposti colpevoli e i ripetuti colpi di scena sono infatti del tutto prevedibili per l’intera durata della pellicola, anche ad i meno allenati al cinema di genere) per mettere su un vero e proprio esercizio di stile cinematografico, in modo al tempo stesso simile e differente con quanto fatto negli ultimi anni da Brian De Palma con le sue opere.

Per “Quo Vadis, Baby?”, infatti, il talentuoso autore di “Mediterraneo” usa tutti i tipi di inquadrature e di supporti meccanici (fissa, dolly, camera a mano, steady, crane…..) nella costruzione di un’opera che risulta, dal punto della comunicazioni per immagini, altamente curata in ogni sua minima sfumatura quasi al limite dell’ossessivo. Salvatores accanto alla classica narrazione “esterna” affianca, nel raccontare la vicenda, anche una “vista” interna (attraverso l’uso della soggettiva nei ricordi della protagonista e nei videodiari della sorella della stessa) tramite la quale egli cerca un’immedesimazione il più possibile piena tra lo spettatore e le vicende dei protagonisti (bellissima la scena in cui Giorgia entra nell’aula del professore di cinematografia nell’esatto momento in cui questi sta spiegando il concetto di totale immedesimazione tra lo spettatore e l’obbiettivo della cinepresa).

Altra parte della pellicola estremamente curata è la fotografia. Per meglio caratterizzare infatti le numerose sfumature emotive del racconto, sono stati usati tre tipi di varianti cromatiche: il chiaroscuro per le parti da noir, il blu per quelle sentimentali ed il giallo bruciato, al limite del denaturato, per quelle dei “ricordi” (mnemonici o in vhs che fossero). Questa equilibrata alternanza di toni ha molto giovato al ritmo narrativo della pellicola visto che per lo spettatore è molto più facile seguire il fluire del “raccontato per immagini” se esso è adeguatamente preparato emotivamente attraverso un accurato uso della fotografia.
Un capitolo a parte meriterebbe il tema citazionista ispirativo, al limite del metacinema, della pellicola (dagli impressionisti tedeschi a Godard), ma finiremmo per dilungarci troppo, quindi per tutte segnaliamo soltanto la bellissima e lunghissima sequenza finale che alterna le scene del film a quelle prese da “M, il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang, dalle quali si comprende sull’emotività ed i significati di “Quo Vadis, Baby” più di quanto non si sia appreso nell’ora e quarantacinque precedenti.

Unica nota di demerito del film, oltre che alla già citata mancanza di un originale intreccio, l’interpretazione dei protagonisti per lunghi tratti posticcia e poco performante, ad eccezione di quella dell’ormai infallibile Burruano, ottimo nel costruire il personaggio del “Capitano” perennemente smarrito tra il patetico ed il mefistofelico.


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