«Quelli che ho amato e non ci sono più» Memorie di un innamorato dei cinema di ieri

Sono cresciuto a Catania, molti anni addietro da questo punto, tra Ognina e Picanello, perso tra un hello e un goodbye (per dirla alla Clint Eastwood) e le mie sale si chiamavano Terrazza Cavallaro, cine Recupero, cineteatro Sud e arena Miramare. In quei luoghi mi sono innamorato della settima arte e in quei luoghi, in un flashforward, essa diventò, nello spazio tra un frame ed un altro, la mia passione e il mio mestiere (rigorosamente in quest’ordine).

Appena bambino mia madre usava portare me e i miei fratelli alla Terrazza Cavallaro sui tetti delle case di via Arduino incastonata tra cielo e terra (per dirla alla Oliver Stone) al centro di Picanello e in cui chiunque era straniero se non viveva tra quello e Ognina. Della Terrazza Cavallaro ho i ricordi in un bianco e nero già vecchio, confusi ma inesorabili, di Totò e Peppino, di Fabrizi e la Magnani, diluiti nei sapori e gli odori dei limone col sale e dell’acqua con l’anice, mentre mia madre ci raccontava come da bambina amasse guardare i film in quel luogo nella notte di san Lorenzo sotto un velo di stelle cadenti.

Mio nonno paterno, reduce ed invalido di guerra (una granata gli portò via una gamba in nord Africa durante la Seconda guerra mondiale), lavorava come maschera al cinema Recupero in via Duca degli Abruzzi e spesso portava me e i miei fratelli con sé nei suoi pomeriggi lavorativi e lasciava che fosse il cinema ad aiutarlo a fare il baby-sitter. In quel cinema, masticando gomma americana e liquirizia, ho visto per la prima volta i colori e suoni delle storie di Jules Verne in film decisamente di serie B ma assolutamente indimenticabili come Viaggio al centro della Terra e La terra dimenticata dal tempo (ancora oggi i miei fratelli non riescono a prendere sul serio nessun film che non abbia dentro un dinosauro, una lucertola gigante, un cacciatore o una sparatoria).

Al cineteatro Sud (che prima si chiamava cine-arena San Filippo), in via Re Martino, si andava con tutta la famiglia e si poteva guardare un giorno sul telone bianco i fratelli Taviani e il giorno dopo sulle tavole marroni Pirandello e Verga. Certo in sala non si poteva mangiare, ma tra un atto e un altro o tra un tempo e un altro, era come se fosse Natale nel piccolo ed elegante bar del cineteatro Sud.

All’arena Miramare, in via Messina a Ognina, andavo in estate con i compagni di scuola o con gli amici di quartiere. Dalla cassa per arrivare all’arena bisognava attraversare un lungo corridoio all’aperto in cui si potevano sentire gli odori dei fiori e delle arance provenienti dai piccoli giardini che lo circondavano e la visione di film come 2001 Odissea nello spazio era accompagnata dallo sgranocchiare di cartocci di noccioline e dalla vista del mare roccioso sul lato destro dello schermo.

Quei cinema oggi tristemente non esistono più e per ritrovare la poesia delle piccole sale di quartiere ho dovuto attraversare l’Atlantico (cosa che in qualche modo mi rende ancora più malinconico al riguardo). Il cinema a quei tempi e in quei luoghi non era fast-food per immagini, separazione degli spazi, estenuanti promozioni e stinky bars, ma era innanzitutto e soprattutto liturgia della visione, in cui si godeva non soltanto delle immagini ma anche di tutto ciò che vi girava intorno (dalla cassiera, ai ghiaccioli al limone, alle gazzose nelle bottigliette senza etichetta). Andare al cinema era un po’ come andare ad una sagra di quartiere od a una festa di famiglia: in un modo o in un altro ci sentiva sempre o a casa o tra amici. Adesso purtroppo quella poesia si è persa.

Nelle multinazionali multisale si possono anche vedere delle ottime opere ma ci si sente, alla fine, un po’ straniti, un po’ stranieri e il film stesso lascia un differente retrogusto: leggermente amaro, decisamente triste. Abbiamo sostituito il viaggiare in piccole e poetiche zattere tra onde di celluloide illuminate dal sole del proiettore con il viaggiare in asettici e giganteschi transatlantici in mari piatti di codici binari. Perché? Perché abbiamo, tutti noi, sottostimato il valore della normalità e della consuetudine, di ciò che conoscevamo e che in qualche modo ci definiva, credendo che ad esso non potesse appartenere il romanticismo e la poesia. A me mancano terribilmente quei luoghi e quelle sale in cui a parità di pellicola i film erano molto più belli. Mai sottovalutare l’imprevedibilità dell’ovvio (per dirla alla Agata Christie).


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