F e d e r i c o; s. P. S. , palermo, 2014 - di giulio ambrosetti
Quella vita che fugge via
F E D E R I C O; s.p.s., Palermo, 2014 – di Giulio Ambrosetti
di Cettina Vivirito
Dal 27 luglio questa recensione di Cettina Vivirito è nella mia posta elettronica. Mentre scrivo ancora non so se è giusto pubblicarla. E’ una cosa ‘mia’ e l’autoincensamento non mi è mai piaciuto.
Certo, questo racconto lungo l’ho scritto io negli anni ’90. L’ho ritrovato, l’ho fatto leggere a un mio amico che si occupa di editoria che mi ha detto:
“Pubblicalo sul miolibro.it”.
In realtà, non ci siamo capiti. O meglio, io ho capito male: pensavo che il racconto sarebbe andato on line. Invece per averlo bisogna richiederlo e te lo mandano stampato. Un gran casino. Cettina e Carmelo sono gli unici due che sono riusciti, non so come, ad acquistarlo. Vittorio – che pure mi ha detto di volerlo leggere – non c’è riuscito. E io nemmeno.
Abito in palazzo senza portiere e l’unica cosa che mi recapitano sono le denunce (da Confidustria Sicilia ne sto collezionando a decine: ma questi cosiddetti ‘industriali’ non hanno altro da fare?) e le cartelle esattoriali. All’infuori di queste due ‘categorie dello spirito’ non ho ricevuto mai nulla. Figuriamoci un libro.
In effetti, qualche mese fa ricordo un E.mail dove si diceva: le abbiamo inviato questo volume, ma all’indirizzo che ci ha lasciato non c’era nessuno: che vuole fare? Poi si diceva: se lei non desidera altri messaggi dica sì. Ho detto subito sì, perché con i casini che ho non ho nemmeno il tempo di respirare.
Il racconto l’ho pubblicizzato poco: anche perché quei pochi, come Vittorio, non riescono ad acquistarlo.
Non so come sia finito nelle mani di Cettina. Che ha scritto questa recensione. Che devo fare? La pubblico e basta. (g.a.)
Giulio Ambrosetti, F E D E R I C O; s.p.s., Palermo, 2014.
Quando mi sono trovata tra le mani il libro di Giulio Ambrosetti, con una Olimpia a piena pagina in copertina che evidenzia nei tasti un nome: F E D E R I C O, mi sono commossa di quella commozione indulgente verso i propri ricordi e le corrispondenze elettive e affettive che pure la vita qualche volta ci regala. Una bella, massiccia, arancione Olimpia, in una copertina che non riporta alcuna casa editrice, perché, va detto subito: Ambrosetti rientra nella categoria degli S.P.S. (come chiama Umberto Eco quelli che si autopubblicano: Scrittori a Proprie Spese); e non avrebbe potuto essere altrimenti.
Ad ogni scrittore la sua macchina da scrivere, si diceva fino a non molto tempo fa: dalla Olivetti di Montanelli all’Olympia di Bukowski in comune la materialità di una battitura che aveva un peso, l’odore del metallo che pizzica le narici, il gioiello e l’incubo, il piacere sensuale di scrivere con un carattere unico, personale. Righe che non sono mai allineate perfettamente, caratteri non del tutto identici, cancellature, imprecisioni. Pagine vere, quelle di quando scrivere era soltanto scrivere, soffiare su canne d’organo e ascoltarne la musica del caso, senza andare a controllare facebook, o le e-mail.
Scrive Giulio Ambrosetti: ( ) Enzo non cedeva volentieri la sua Olimpia. Era gelosissimo della sua macchina da scrivere. Raramente invitava qualche collaboratore a utilizzarla. Se ciò accadeva, per il destinatario dell’invito era un onore. Significava che avevi la sua fiducia. Che doveva risultare ben riposta. Enzo non avrebbe tollerato il benché minimo danno alla sua Olimpia.
Amare la propria Olimpia come si ama la compagna della propria vita: un paio di significative generazioni potrebbero identificarvisi.
Palermitano che si considera agrigentino (di origini lo è), Giulio Ambrosetti, con disincanto un po’ malinconico, e usando la semplificazione della terza persona singolare ripercorre in questo suo libro una parte fondante della sua vita, una vita ai tempi dell’Olimpia, delimitata come hortus conclusus da un cambiamento epocale che ha posto l’Olimpia nella teca dei ricordi, sulle note dell’amato John Coltrane: It’s Easy to remember.
Racconto della vita professionale di un giornalista che è sobrio esercizio di stile, ma anche un mettere ordine nel caos stabile della propria esistenza che deve adattarsi a un presente che si è velocizzato e dunque per alcuni aspetti al contempo rarefatto: incoraggiamento prezioso e vitale per la generazione Olimpia e per i più giovani per i quali l’Olimpia è uno sconosciuto antenato.
Ma chi è Giulio Ambrosetti? Una essenziale biografia, tracciata da egli stesso in maniera fulminea ne dipinge l’autoritratto: (…) Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o milludo di capire. Sono cresciuto al quotidiano LOra di Palermo. Lì sono rimasto fino alla chiusura, avvenuta nel ’92. Il LOra mi manca tantissimo. Mi ha lasciato nellanima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi. In totale libertà. ( ). Da un anno e mezzo, con una mia amica e altri collaboratori, facciamo un quotidiano on line (…). Abbiamo tanti lettori, ma non abbiamo la pubblicità. Non mi chiedete come vivo perché non lo so nemmeno io.
Una nota di qualche anno fa aggiunge un frammento importante per comprendere l’autore di Federico; è la nota di un ex redattore dell’Ufficio Stampa della Regione che qualche anno fa decise di lasciare l’incarico: Perché mi sono dimesso? Perché il lavoro che facevo non mi piaceva. Per niente. Mi stavo ammalando. Anzi, mi sono ammalato.(…). A me piace sognare. Palazzo dOrleans, visto dalla parte delle radici, è un incubo. ( ) Oggi con unamica lavoriamo a LinkSicilia. Sono tornato a fare il mio lavoro.
Mentre aumenta il cattivo giornalismo, questa nota diventa esempio di contro-azione, seguita da una contro-narrazione che ha dei predecessori, da Hannah Harendt a Roberto Saviano. Laddove ci si sforza di mettere a fuoco la figura del colpevole e le motivazioni che hanno guidato le sue azioni, e questo è il giornalismo di Giulio Ambrosetti, il valore della narrazione diventa modalità per contrastare, con la forza della parola testimoniale, la cancellazione degli ebrei dalla storia, la malavita tra il popolo napoletano, la cultura mafiosa siciliana.
Rimarrà sempre qualcuno a raccontare la storia, scrive Hannah Arendt, rimarcando limportanza della narrazione come arma in difesa della parola che salva perché sancisce il valore della vita, provvista di senso e di pensiero.
Una volta i giornali davano spazio a personaggi come Pasolini, che ha scritto verità micidiali sulle pagine del Corriere della Sera; penso anche alla parte buona della carriera di Giorgio Bocca, o di Indro Montanelli. Oggi, per dire una cosa talmente retorica da diventare impronunciabile, viviamo assuefatti dal conformismo dell’anticonformismo, identificabile in quella classe di miracolati (le grandi firme) che fanno il solito giro: non sentiremo mai nulla fuori dal coro che ci avvicini alla realtà delle cose. Unica contro-voce il Web che con le sue tumultuose innovazioni sta cercando di reinventare un ruolo in un nuovo mondo in cui ogni singola persona può comunicare quello che vuole e offrire ai cittadini una informazione indipendente, onesta e sempre più spesso, di qualità.
I giornalisti, indiscutibilmente, sono ormai parte delle élite molto di più rispetto a 30 anni fa – racconta Lars Willnat, professore di giornalismo allIndiana University -. Ora si mescolano con grande naturalezza alle persone di cui devono riferire, non solo sul lavoro ma anche sul piano sociale.
Invece di avere un atteggiamento di critica e di distanza da chi ha potere, i giornalisti sono amici (a volte con relativi benefici) dei potenti.
Questo è sempre avvenuto in qualche misura, ma ora non cè nemmeno più il tentativo di farsi passare per un outsider. ( ) Oggettività ora significa solo fare qualche citazione da qualche fonte o funzionario anonimo con cui il giornalista ha rapporti, lasciando al lettore il compito di capire che cosè che non va. E’ probabile che questa mitezza abbia a che fare con la situazione attuale del mercato del lavoro. I giornalisti potrebbero temere di perdere il posto se si mostrano troppo aggressivi nel loro lavoro e ci sono sempre meno opportunità per un giornalista licenziato nel farsi assumere altrove.
In ogni caso è terribilmente ingenuo pensare che il giornalismo dovrebbe rendere pubbliche le informazioni che il potere desidera tenere nascoste ai cittadini: i responsabili del potere politico definiscono ideologia quella di chi non ritiene che il sistema sia sostanzialmente un bene. Pubblicare o anche solo parlare di documenti frutto di leaks è diventato immorale. Quelli che rimangono sono un branco di convenzionali, vecchi uomini bianchi, le cui file vengono alimentate da chi può permettersi di essere stagista non pagato per anni, al termine dei quali avranno imparato ad accettare i parametri ristretti entro i quali opera la loro professione, consapevoli che la loro libertà di scegliere un argomento è inversamente proporzionale al loro desiderio di avere una lunga carriera sostiene Davis, giornalista di Los Angeles.
Non è certo il biondino (idealista) di cui ci parla Giulio Ambrosetti: Biondini erano i collaboratori che volevano diventare giornalisti. Non avevano un contratto, ma avevano la possibilità di bazzicare in redazione. Ogni responsabile di settore aveva i suoi biondini. C’erano i biondini della cronaca cittadina, i biondini degli spettacoli, i biondini dello sport. Non tutti i collaboratori diventavano biondini. Il grado di biondino bisognava conquistarselo sul campo.
Un mestiere sempre più complicato che impone scelte difficili, che in più di una occasione ha meritato la freccia avvelenata di Karl Kraus: Non avere neanche un pensiero ed essere in grado di esprimerlo: ecco cosa serve per diventare giornalisti.
Inutile vagheggiare un’età dell’oro del giornalismo; neanche Ferdinando sembra avere rimpianti professionali, se non per l’Olimpia. Anche lui sa che negli anni Settanta le redazioni erano ancora più bianche di oggi, e cento anni prima che i media aiutassero a vendere la guerra in Iraq, le più famose firme del giornalismo americano avevano favorito la vendita della guerra con la Spagna. Perché la guerra, scriveva Susan Sontag, è sempre la più strepitosa delle notizie.
Ferdinando è l’idealista di cui il sistema si preoccupa, quello strillone per il quale la vita diventa prossimità al sociale, in un groviglio inestricabile di professionalità e compartecipazione, analisi e lotta quotidiana.
Sdraiato sul letto della sua casa di Sciacca, ripensava alle sedute notturne di Sala d’Ercole, la damascata sede del Parlamento siciliano. Era proprio di notte che si approvavano le leggi più ‘inturciunate’. (…) Ripensava alle lunghe notti passate nella sala stampa a leggere e rileggere emendamenti criptici. Più è breve e più criptico è l’emendamento – gli aveva spiegato Tonino – più grande è l’imbroglio che è stato architettato. Tocca a te scoprirlo e spiegarlo ai lettori.
Legami che nascono per caso, o forse, inevitabilmente. Ferdinando conosce telefonicamente Federico, che lavora alla redazione di Napoli. Si sentono ogni giorno per lavoro ma iniziano a conoscersi e si piacciono, si comprendono, rintracciano il filo che li tiene uniti e le discussioni scivolano spesso sulla questione meridionale.
A questo amico napoletano, Federico, che ti aiuta a crescere lasciandoti rimanere te stesso, Ferdinando, un appassionato di isole, ama descrivergli la sua Sicilia, Palermo, Trapani, Segesta, Selinunte.
Selinunte è sempre bella, ma in primavera e in estate è ancora più bella. Con il bel tempo il tramonto è uno spettacolo. Il sole va giù proprio sul mare. La luce cambia con una velocità che non è facile immaginare se non sei lì. E cambia il modo di vedere il paesaggio. Sotto il sole le colonne del tempio brillano. (…) A me piace guardare il sole e poi il tempio. E poi ancora il sole e poi ancora il tempio. Continuo così fino a che il sole viene inghiottito dal mare. Poi rimango seduto in silenzio.
Lo stesso amore sensuale verso le pietre del Tempio e per le gambe di Eliana, nera di occhi e di capelli, che scendevano a terra come colonne ioniche. ( ). Ferdinando non riusciva a capire perché (al Tempio di Selinunte) veniva precluso l’ingresso ai visitatori al tramonto, il momento più bello. Una volta l’aveva chiesto al Sovrintendente, credendo ingenuamente di poter sollevare un caso nazionale, toccando il tasto nero dei beni culturali in Sicilia.
Ne aveva parlato pure con il grande economista commentatore di Lettera Sud, il supplemento economico e finanziario del Il Mattino di Napoli dove lavorava Federico e con cui collaborava, ottenendo in risposta: I beni culturali che avete laggiù in Sicilia non ce li ha nessuno. Avete cose incredibili, aree archeologiche di una bellezza indescrivibile. Centri storici incantevoli, palazzi e monumenti unici. Il mare con le spiagge dell’Agrigentino e del Ragusano. Il verde dei Nebrodi e dei Peloritani. Le saline di Trapani. Le distese di grano dell’Ennese e del Nisseno. I giardini di agrumi di Palermo.
Guardi che la Sicilia non è tutto un paradiso, aveva osservato Ferdinando.
Infatti, aveva replicato il grande economista, accanto al paradiso avete anche l’Inferno. Ma è grande anche quello.
Ma più spesso gli parla di Sciacca, che, dice all’amico napoletano, è il paese del mare verde.
In un inseguirsi reso inconciliabile da mille contrattempi, Ferdinando ripercorre il Regno delle due Sicilie e sbarca a Napoli, per conoscere Federico; durante questo appuntamento mancato, al bar si prende una soddisfazione che sognava da anni. Appena arrivato alla cassa tira fuori i soldi e dice: Un caffè per me e uno pagato.
La ‘filosofia’ del caffè pagato che il palermitano non potrebbe mai digerire. Nel caffè pagato c’è una condizione di indefinito e di infinito che un abitante di Palermo nato e cresciuto a Palermo non può tollerare. Il genotipo del palermitano non può contemplare nemmeno una riflessione sul caffè pagato. Il palermitano è fondamentalmente un punico.
I punici erano commercianti. Pur di commerciare, affrontavano il mare aperto. Praticanti del do ut des. Questo spirito, a Palermo, è passato intatto attraverso secoli. Un palermitano non pagherebbe mai un caffè per chi passerà dal quel bar dopo di lui. Attento: se sei con lui ti offre il caffè e magari il pranzo. Ma devi essere con lui. Ti deve avere accanto. Deve parlare con te. Ti deve toccare. Una diversità antropologica che in questo caso, nel caso di Ferdinando, diventa condivisione emotiva con Federico, con Napoli, capitale mai dimenticata.
Per tutto il racconto, soffia il vento separatista di cui Giulio Ambrosetti non fa mistero nella sua linea editoriale, e del quale lascia trasparire le profonde motivazioni storiche, attualizzandone le conseguenze, dirigendo lo sguardo del lettore verso quella Sicilia di cui il giornale parla ogni giorno: quella Sicilia che ogni giorno deve fare i conti con chi la calpesta, dai militari americani che hanno montato il Muos a Niscemi (un mostro elettromagnetico) ai signori dellEni che, da oltre 50 anni, tengono imprigionata Gela con uno stabilimento chimico, da Terna che spadroneggia nella Valle del Mela agli inciuci delle miniere di sale dell’Emsams, per finire alle raffinerie di petrolio, di cui ci rimane solo l’inquinamento.
Riappropriazione identitaria di realtà territoriali antiche, da troppo tempo schiacciate dal pensiero unico della globalizzazione e della mondializzazione, sembra essere l’obiettivo per contrastare le logiche del Nuovo Ordine Mondiale. Ogni manifestazione di appartenenza alla propria terra è il segnale che ci sono infiniti modi di essere collegati ai popoli del mondo e che l’omologazione che stanno imponendo non è l’unica strada, sostiene Ambrosetti. E qui Pereira gli darebbe dell’irriducibile utopista.
Una scrittura asciutta e priva di stilemi quella di Giulio Ambrosetti, dove l’essenzialità dell’evento produce la sensazione di esserci dentro, qualunque esso sia, in un momento ben preciso. Se è vero che la padronanza del linguaggio equivale alla padronanza del mondo che costruiamo per viverci, l’esperienza e la contro-narrazione di cui questo viaggio formativo dentro una redazione, ma anche dentro un paesaggio dell’anima è espressione, permettono di riconoscere un sapere legato alla realtà compreso dei punti di vista personali che ci sono propri; un modo particolare di percorrere la distanza più breve per raggiungere il vero cuore delle cose, una prossimità alla vita che diventa essenza intima della scrittura.
( ) Vivere senza soldi era la parte più divertente di quella particolare avventura che era la sua vita, sostiene Ferdinando. Era la storia che stava vivendo che non gli andava giù per niente. Ferdinando non ha paura del futuro, nei momenti di difficoltà aveva imparato che, per ogni porta che si chiude, ce ne sono sempre altre che si aprono, con un po’ di ottimismo e con la fede che non gli manca; ma c’è una cosa che lo getta giù, una cosa non facile da descrivere, una cosa sfuggente ma terribilmente umana e presente: non sopporta vedere la vita andare via. E la sua vita non è fatta solo di sé, ma anche di altre persone, soprattutto delle persone che gli sono care, che gli erano state vicino, alle quali era stato vicino. Ricordava quei giorni d’estate. Bellissimi. E poi la fine.
Non essere rassicurato dalla distanza temporale del ricordo, sentire invece una grande nostalgia di una vita passata e di una vita futura; era capitato pure a Pereira.