Quarta e ultima tappa: Donosti – San Sebastian

Passammo la scritta Euskadi quando il mezzogiorno era da poco nato. Il cielo immenso sopra il tetto della nostra auto, noleggiata a poco, era febbrile e stanco. Pareva come se si preparasse a scaricare su di noi una pioggia eccezionale e guasta feste, ma non fu così. Il cielo del País Vasco è monocromatico, imbronciato, orgoglioso, triste ma rispettoso.
Le ruote della nostra auto lasciarono indietro Bilbao e la sua ría per spingersi oltre, passammo anche il porto spettrale di Elantxobe ma, poi, ci fermammo a Lekeitio dove posteggiammo l’auto in un viottolo e scendemmo.

País Vasco, País Vasco, molte, differenti cose si potrebbero dire su questo mondo per alcuni stregato per altri fatato. Per molti, comunque, diverso, differente e complesso. Tutto qui appare come coperto da un velo trasparente d’incertezze: chi è davvero interessato a sforzarsi strizzando un po’ gli occhi e guardarci attraverso, senza rassegnarsi immediatamente, troverà almeno una delle sue tante verità nascoste sotto.

La Lengua Euskara è il primo spauracchio che si presenta sotto forma di vecchio elfo laconico e scontroso che si cela tra le sterpaglie ed i pineti vizcaini e le callejuelas della costa del nord; ma anche la cucina tradizionale che appare come una miracolosa quanto disorientante mescola tra piatti di mare e zuppe contadine bollenti.

Lekeitio è un piccolo porto incastonato nella costa oceanica della Vizcaya (Bizcaia) ed il suo volto è rugoso ma allegro. La sabbia era color senape e fredda, noi la calpestammo sporcando un po’ le suole delle nostre scarpe mentre ingollavamo dell’aria fredda e di gusto-pioggia. Così,  entrammo tra le strade irregolari del pueblo dove ci colpì la luce che entrava a flussi tra le crepe dei palazzi vecchi formando un bel percorso a strisce chiare. La via centrale, poi, si aprì in un minuscolo largo dove solo cinque banchi di pesce formavano il consueto mercatino della mattina. Ci piacque parecchio fare parte di quella ventina di persone che passavano da una bancherella ad un altra e lì, pronta come sempre, Carlotta immortalò una splendida venditrice con mannaia in mano pronta a far fuori la pinna dura d’uno squaletto d’oceano. La vecchia signora mostrò di gradire il ruolo di modella sfoggiandoci una posa da killer la cui lama luccicava tagliente.

Poi entrammo al porto e lì, quasi fosse un documentario, pescatori con felpa a righe bianco-blu si lanciavano degli urlacci in euskara ed anche delle lunghe grosse corde con cui strozzare il piede di ferro di una barcaccia a motore. Di fronte al punto più esterno del porto galleggiava serena un’isoletta a punta ricoperta di pini marittimi. Su quella enorme boa naturale chiamata San Nicolás si perdette per un po’ il nostro sguardo arrossato dalla brezza gelida mentre, negli stessi istanti, un frettoloso appetito cominciò a percuotere il nostro stomaco. Ci fermammo in un bar, mangiammo dei pintxos de pescado e sorseggiammo del mosto bianco prima ed un cortado bollente per mandar giù tutto.

Ritornammo fuori, appagati, e ricordai di aver già pensato all’Oceano come carattere difficile ed a tratti impenetrabile, che ti volta le spalle geloso del suo corpo. Quella parte d’Oceano, lì tra le rìas di Vizcaya, rafforzò le mie convinzioni, perchè con le sue onde schiumose, si mise, all’improvviso, a strillare istericamente e cominciò a fracassarsi furiose contro le piattaforme portuali sfruttando una forza immane, selvatica e ferocemente infastidita. Penso lo fece per allontanarci o scoraggiarci o molto più probabilmente, era tutto lo scenario che viziava, con goliardia pittoresca, i miei pensieri.

Lasciammo Lekeitio e ripartimmo. Carlotta accanto a me inserì una vecchia musicassetta di Mikel Laboa regalatale da un amico di Vitoria-Gasteiz. La voce magica di Mikel apparve il sottofondo ideale per il percorso costiero che divenne di li a poco della regione di Guipúzcoa (Gipuzkoa).

Si le hubiera cortado las alas (se gli avessi tagliato le ali)
habría sido mío, (sarebbe stato mio)
no habria escapado.(non sarebbe scappato)
Pero así, (Però così)
habría dejado de ser pájaro. (non sarebbe stato più un uccello)

Y yo...(ed io…)
yo lo que amaba era un pájaro. (era un uccello quello che amavo)

E noi provammo ad aprire ali e occhi per godere al massimo dello spettacolo che avevamo ai fianchi. Passammo pueblos a strapiombo, porti minuscoli, spiagge umide di pioggia, pioggia che poi incominciò a cadere lentamente. Attraversammo Zarautz, Zumaia ma poi ci fermammo a Getaria per pranzare.

A Getaria l’eroe locale è Bernardo E. Lasa, si narra uno degli unici superstiti della disumana circumnavigazione del mondo di Magellano e quindi uno dei primi a poterla raccontare. La sua statua è la prima “porta” del paese, che si presentò ai nostri occhi come un suggestivo vialetto medievale in pietra che pendeva verso il mare. Alla destra e alla sinistra si molteplicavano bar dove mangiare ed ognuno vantava un aspetto invitante. Ci fermammo a quello che aveva in vetrina la scritta: Txacolina.

La Txacolina è un vino bianco che sa di champagne ma che viene prodotto esclusivamente in questo paese guipuzcoano. Ne prendemmo due bicchieri e questo frizzò dentro alle nostre bocche sciacquandocele per bene, quando toccammo i bicchieri, il bacalao già fumava in piatti ovali di fronte a noi. Prendemmo anche della tarta de queso con glassa ai frutti di bosco ed un patxaran: dolcissimo liquore basco a base di anice, che splendeva rosso nei bicchierini col ghiaccio.

Dopo pranzo facemmo un giro al porto per respirare un po’ d’aria di mare. La gente era silenziosa ed io pensai che, effettivamente, non c’era alcun motivo per fare del rumore inutile, almeno lì, in quella baia, a quell’ora del pomeriggio, con le barche che solo loro potevano permettersi di urtarsi in goffi ciocchi e di emettere, così, leggeri scricchiolii. Il cuore era pieno di quel posto così salimmo in macchina e ripartimmo verso Donosti o San Sebastian (fate voi). Quando arrivammo nel capoluogo della regione quando erano le 17 circa. La città era avvolta in un gomitolo di nuvole grige ma non malvagie, non avrebbe piovuto, almeno per quel giorno. Posteggiammo l’auto e ci dirigemmo a piedi verso il centro. Per strada scorgemmo un frontón di quartiere, uno di quei tanti che nelle città di Euskal Herria abbondano.
Bambini giocavano alla pelota vasca o, come recita il toponimo in euskara Jai Alai, Festa allegra.

Chi va nel País Vasco non può non sentire il fascino per questa disciplina che assomiglia allo squash ma che vanta una tradizione centenaria ed una lega modernissima. Sembrava stesse vincendo il bambino con i pantaloncini rossi, ma poi Carlotta mi tirò per un braccio via di lì. Arrivammo al Casco Viejo e qui le strade si fecero strette ed imperfette: numerosi bar sfoggiavano la bandiera a croci bianche e rosse su fondo verde, l‘Ikurriña, disegnata dall’ideologo nazionalista Sabino Arana ed, oramai, sempre presente tra i balconi e le finestre del paese.

Seguimmo il profumo di mare verso la splendida e celebre Concha, la spiaggia a forma di conchiglia che è il vanto della città. Scendemmo sulla sabbia e questa era bagnata, ma di un colore rilassante. Poi, dei gabbiani giganti e bianchissimi, atterrarono proprio vicini a noi guardandoci con occhi diffidenti ma tolleranti. Come se accettassero a fatica di dividere la loro “conchiglia” con noi che ci stringemmo nelle nostre giacche, sventolati per bene dal vento forte. Se potessi definire Donosti, direi che è una splendida anziana con occhi celesti e dal volto rugoso e sonnolente e che della costa Nord della Spagna, quella dal colore “Grigio Perla”, appare come la più dolce e rassicurante, con i suoi due ponti e con El Peine del Viento dello scultore donostiano Chillida, che del mare è figlio, vittima e padrone.

Nient’altro saprei aggiungere su Donosti nè sul resto del mio percorso tra le coste della Spagna Atlantica. Ciò che sono costretto ad omettere del febbrile racconto, non possiede purtroppo/per fortuna quella densità tale perchè possa immortalarlo tramite lo scarno linguaggio delle parole.

Carlotta sorseggiava un bicchiere di sidra mentre i capelli le coprivano parte della fronte, poi si girò, mi sorrise e si rivolse di nuovo verso il mare color cenere. Io chiusi gli occhi e spensi i pensieri, per un po’.

agur


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