Quanto costa l’inquinamento a Gela e Priolo Bonificare? Alle aziende non conviene

Decessi, tumori, ricoveri ospedalieri, malformazioni. L’inquinamento industriale nelle zone a rischio ambientale siciliane di Priolo e Gela porta con sé conseguenze drammatiche. L’incapacità di affrontare la cronica situazione di emergenza in queste aree è uno dei tanti fallimenti della politica ambientale italiana. Eppure questi due sono stati tra i primi ad essere inclusi (già nel 1998) tra i siti di interesse nazionale (Sin) per le bonifiche.

Una vera politica di recupero ambientale ha come logico punto di partenza l’adeguamento o la chiusura delle strutture che inquinano. Ma provvedimenti come il sequestro dell’Ilva emesso dai magistrati di Taranto, bloccano di fatto l’attività industriale e mettono a rischio i posti di lavoro che ne dipendono, scatenando forte opposizione sia tra gli operai che nelle istituzioni, incapaci di concepire una politica economica e ambientale a lungo termine.
L’altra faccia delle operazioni di recupero deve essere ovviamente quella della bonifica dei siti inquinati – cioè della depurazione di aria, acque e terreni – senza la quale, anche bloccando le fonti di nuovo inquinamento, sarebbe difficile ottenere un miglioramento delle condizioni di salute della popolazione. Secondo la normativa vigente (entrata in vigore nel 2006), le operazioni di bonifica vanno valutate in base ai costi degli interventi e ai benefici ottenuti. Ma quanto costano l’inquinamento a Gela e Priolo e le sue conseguenze medico-sanitarie?

Il modo più semplice per stimare questo genere di costi è calcolare le spese dirette (per esempio quelle per le cure mediche) e indirette (come i giorni di lavoro persi) causate dall’aumento delle malattie nella popolazione. Queste stime però non considerano i costi personali della malattia, come la paura e il dolore che prova chi ne è colpito e chi gli sta vicino. Per questo si utilizza di solito un indicatore chiamato Wtp (Willingness to pay), cioè la quantità di denaro che una persona sarebbe disposta a pagare per evitare una condizione sfavorevole, come la morte o una malattia. Questo indicatore cerca di rispondere a domande che suonano blasfeme: Quanto vale una vita umana? Quanto saremmo disposti a pagare per non morire? La Wtp varia ovviamente in base al benessere della popolazione, alla percezione personale del rischio e al tempo che intercorre tra un investimento e i benefici sulla salute che questo produce. Secondo le indicazioni fornite dalla Commissione Europea, nel 2000 una vita umana valeva 1,4 milioni di euro, il 30 per cento in meno se a morire erano persone anziane. A causa dell’inflazione, la vita si è oggi notevolmente rivalutata.

Sulla base di questa e altre indicazioni, alcuni ricercatori del Cnr e della London School of Hygiene and tropical medicine hanno cercato di valutare l’impatto economico dell’inquinamento nei siti di Gela e Priolo. I ricercatori hanno utilizzato i dati dell’assessorato alla Sanità della Regione Sicilia per calcolare il numero di morti e malattie in eccesso in queste aree rispetto ai comuni limitrofi, e quindi dovute presumibilmente all’inquinamento. Assegnato un costo specifico a ciascuno dei tre eventi presi in considerazione (morte, tumore o malattia non tumorale), hanno poi calcolato il totale: 6.639 milioni di euro per Gela e 3.592 milioni di euro per Priolo. Queste stime sono ovviamente indicative e quantomeno approssimate. Per esempio, non sono stati considerati i costi degli aborti e delle malformazioni congenite associate all’inquinamento – che pure si presentano in queste aree con una incidenza tra le più alte al mondo – perché non esiste ancora alcuno studio sul loro valore economico percepito.

Nonostante le inevitabili approssimazioni, la logica conclusione di questo studio è che interventi di bonifica nell’ordine di miliardi di euro verrebbero ampiamente ripagati dai benefici in termini di salute pubblica: gli effetti positivi sarebbero immediati per le malattie acute, mentre per malattie a incubazione più lunga, come i tumori, i risultati si vedrebbero negli anni. Il problema è che chi dovrebbe sostenere i costi non è lo stesso che godrebbe degli eventuali vantaggi. Se pagasse lo Stato (o l’Unione Europea, o la Regione), i soldi spesi sarebbero giustificati dai benefici sulla salute dei cittadini, che sono parte dello Stato, o piuttosto sono lo Stato. Tuttavia, secondo le norme attuali, i costi delle bonifiche vanno sostenuti dai soggetti inquinanti: vige la legge “chi inquina paga”. Dal punto di vista di una azienda privata, i benefici derivanti da un miglioramento della salute pubblica sono nulli, quindi i soldi delle bonifiche sono soldi buttati. Per questa ovvia ragione, ogni tentativo delle conferenze per le bonifiche di forzare le aziende a pagare, si impantana in una serie interminabile di reclami, ricorsi al Tar, all’Unione Europea, al padreterno.

Caso esemplare quello della Syndial, la società di Eni che ha il compito di realizzare gli interventi di risanamento ambientale di siti petrolchimici, che nel suo rapporto di sostenibilità (2009) alla voce “Contenzioso ambientale” snocciola una lista di reclami lunga sei pagine, parte dei quali si riferiscono ai siti di Priolo e Gela. Una delle tesi più interessanti propugnate dai brillanti avvocati Eni-Syndial è che, visto che le aziende del triangolo industriale Priolo-Augusta-Melilli hanno inquinato tutte, ma non si sa bene in quale misura, non è possibile stabilire quanto ognuna di esse debba contribuire ai costi delle bonifiche, e quindi non si può costringerle a pagare nulla. Questa tesi ha convinto il Tar di Catania, che attraverso varie sentenze ha bloccato l’applicazione della regola “chi inquina paga” alla bonifica della Rada di Augusta, contaminata da tonnellate di mercurio.

Per sbloccare la situazione, il governo Berlusconi e il suo ministro per l’ambiente, la siciliana Stefania Prestigiacomo, proposero e firmarono (era il 2008) un compromesso secondo il quale, dei 770 milioni di euro necessari per la bonifica della Rada, solo 200 sarebbero stati sborsati dalle imprese, e il resto da Stato e Regione. Ma un’altra recente sentenza del Tar (settembre 2012) ha stabilito che gli interventi di risanamento previsti dal piano di bonifica (che dovrebbero essere pagati dalle aziende) rischiano di peggiorare la situazione di inquinamento e non vanno pertanto realizzati.

Il punto cruciale della questione è che bonificare non è conveniente per le aziende, perché non sono loro a pagare il prezzo delle conseguenze mediche dell’inquinamento che hanno causato. Questo significa che una riduzione del numero di morti o malati conseguente a una bonifica non apporta nessun miglioramento ai loro bilanci.

Nel gennaio 2003, una clamorosa operazione denominata Mare Rosso portò all’arresto di 17 dirigenti dell’Enichem di Priolo, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti contenenti mercurio. L’inchiesta è terminata il 15 marzo 2006 con la richiesta di archiviazione del Gip: lo sversamento di mercurio in mare era avvenuto prima che l’Enichem prendesse possesso dello stabilimento, quindi la responsabilità era dell’azienda che glielo aveva venduto, la Montedison. Pochi anni dopo, senza alcuna ragione apparente, l’Eni decise di risarcire con somme tra i 15mila e il milione di euro alcune famiglie di bambini nati con malformazioni causate dal mercurio, e donne che avevano deciso di abortire a causa di malformazioni dei feti. La somma totale sborsata da Eni fu di circa 11 milioni di euro. Se l’Eni e le altre aziende che hanno inquinato a Gela e a Priolo fossero costrette a pagare tutti i danni sanitari derivanti dall’inquinamento che hanno provocato – non solo malformazioni, ma anche morti, tumori, malattie respiratorie, psicosi – sarebbero molto più incentivate a porre fine all’emergenza medica e a pagare per le bonifiche, i cui costi sembrerebbero a quel punto trascurabili. In questo modo si creerebbe un principio di responsabilità completa, che imporrebbe alle imprese una maggiore accortezza nelle loro politiche industriali e ambientali.

Sembra una cosa impossibile, e forse lo è. Sarebbe necessaria un’azione collettiva, non solo e non tanto delle associazioni ambientaliste quanto delle intere popolazioni colpite: una gigantesca class action per rivendicare il proprio sacrosanto diritto alla salute. Questo, però, sembra davvero difficile in territori nei quali, per povertà o per paura, ogni procedimento giudiziario contro le aziende inquinanti sfocia in feroci proteste dei lavoratori (come nel caso pet-coke di Gela del 2002). Forse proteggere l’ambiente e la salute è una cosa da borghesi ricchi e benestanti. O forse è solo una fissazione da paesi nord-europei.

 

[Foto di LaPetra]


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