«Me ne vado in carcere! Il carcere c’è!». Un presentimento, forse, ma sapeva Daniela Lo Verde, preside di frontiera della scuola Giovanni Falcone dello Zen2, finita ai domiciliari stamattina, che qualcosa nella sua gestione dei fondi europei ottenuti dalla scuola non andava. Il riferimento non è ai computer portati a casa o alle provviste vicine […]
La preside Lo Verde e i corsi finanziati dall’Europa. Firme false, aule deserte e rosticceria al posto della mensa
«Me ne vado in carcere! Il carcere c’è!». Un presentimento, forse, ma sapeva Daniela Lo Verde, preside di frontiera della scuola Giovanni Falcone dello Zen2, finita ai domiciliari stamattina, che qualcosa nella sua gestione dei fondi europei ottenuti dalla scuola non andava. Il riferimento non è ai computer portati a casa o alle provviste vicine alla scadenza che sarebbero finite nella sua villa al mare, ma ai corsi che la scuola organizzava pagati dall’Europa, che quasi mai, secondo la ricostruzione degli inquirenti, venivano realmente fatti. O quanto meno, anche se le aule restavano aperte, con i professori talvolta dentro, a mancare sarebbero stati comunque gli alunni. Una mancanza di fatto, non sulla carta, perché le firme dei bambini “presenti” venivano regolarmente registrate. È proprio dai corsi finanziati con dal Pon, il programma operativo nazionale del ministero dell’Istruzione, che nasce la vicenda, con la denuncia di una professoressa che ha portato alla fine all’arresto della preside, del suo vice Daniele Agosta e a una serie di altri provvedimenti a cui pare se ne potrebbero aggiungere altri ancora all’indirizzo di alcuni docenti.
A fare scattare la preoccupazione di Lo Verde è la notifica di proroga delle indagini preliminari che le è stata recapitata nel settembre del 2022. Un’ansia giustificata, quella della dirigente, perché le firme che attestavano le presenze dei bambini ai vari corsi sarebbero state in gran parte false. «No, parliamo seriamente – dice la preside al suo vice in una conversazione captata dalle cimici della procura – Questo è il primo foglio firma, ok? E questo io lo posso accettare. No che va bene, lo posso accettare. Pure questo lo posso accettare. Questo capisci che non lo posso accettare più». Il riferimento sarebbe stato alle firme di due ragazze, che nei vari fogli risultano visibilmente diverse. Una perplessità, quella sulle firme, rappresentata in modo vago anche a un ingegnere, marito di una professoressa, anche lei finita sul registro degli indagati e titolare di uno dei corsi incriminati. La preside, messo al corrente l’ingegnere di quanto stava accadendo, sente rispondersi dall’uomo: «Potrebbe esserci qualcosa sulle presenze? Perché l’unica cosa che mi viene, parlando chiaro, è questa», si legge in un dialogo riportato nell’ordinanza.
«Loro non avevano bambini, Dà – diceva Lo Verde ad Agosta parlando del corso – E tu c’eri. Perché tu referente eri di ‘sto progetto». Da questa paura, scaturita dopo l’avviso, la scuola prova a cambiare marcia, a fare le cose “meglio”, quanto meno per mettere una pezza sistemando i corsi Pon ancora in svolgimento. E in particolare un corso di calcetto. «Allora – dice Lo Verde – il Pon con il professore. Oggi si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Manco oggi. Non s’è fatto oggi e se non l’ho fatto tagliamo tutte cose». «Ma come lo tagliamo con tre incontri fatti e tutti gli altri no?» Replica il fido Agosta. Quest’ultimo costretto dalla preside a presenziare da lì in poi ai corsi dei quali era responsabile. «Non c’era nessun bambino – rimprovera la preside – Non c’era nessun bambino venerdì. Non c’era nessun bambino. Io una recidiva non la voglio, quindi tu ti stai qua con lui, in campo e fate quello che si deve fare, insieme». Da qui la risposta del vice, che dimostrerebbe tra l’altro di non conoscere neanche l’orario di svolgimento del corso.
Nella stessa giornata i due tornano sull’argomento e ancora una volta il tema principe è quello delle firme. «Quindi questo bambino, guarda come firma qua – torna a ravvisare la preside – Improvvisamente poi impara a scrivere in corsivo. Sempre meglio. Poi invece inverte cognome e nome. Ma io questo il primo, giusto Dà? Questo non si può guardare. Io me ne devo andare in carcere per forza? Gli ultimi due li hai visti? Guarda questo… guarda questo, Dà. Cioè, è palese che è la stessa mano che firma». E ancora: «Qualsiasi soluzione io penso la vedo bruttissima». Alla fine l’idea che arriva dopo l’ennesima firma di una bambina assente, è quella di sguinzagliare una collaboratrice scolastica, fogli alla mano, per fare firmare i bambini realmente presenti nei giorni precedenti. Impresa che non riesce a pieno, due sono assenti. Le loro firme, neanche a dirlo, si propone di apporle Agosta.
Tentativi un po’ goffi, quelli di porre rimedio all’irreparabile. Il Pon calcetto, per esempio, prevedeva l’utilizzo del servizio mensa da parte degli alunni, per cui la scuola aveva ricevuto del denaro. Un servizio mai erogato. Per tentare di colmare la mancanza e approfittare della presenza dei ragazzi per farli firmare, la preside decide di ordinare pezzi di rosticceria per tutti. «Allora, siccome questi bambini che fanno calcetto fin dal principio avevano diritto alla mensa. Sono riuscita a chiamare – nome di una nota pasticceria palermitana – Quindi lo porteranno loro. Senti una cosa, io domani ci vorrei fare… arrivare un poco di rosticceria a quei bambini che avrebbero avuto diritto alla mensa». Il discorso continuerà anche nei giorni a venire, con la collaboratrice scolastica in costante pellegrinaggio per le classi a fare firmare i bambini delle liste, a esclusione di «quelli col puntino a lato» e i conti delle presenze che comunque si ostinavano a non tornare, con la soluzione ultima che era sempre la stessa: «Le firmi e buonanotte al secchio».