A quasi otto anni dalle contestazioni la giustizia si è arresa davanti l'incedere del tempo. Si conclude con un nulla di fatto la vicenda che vedeva alla sbarra l'esponente di Fratelli d'Italia. Accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato insieme ad altre due persone
Prescrizione salva l’assessore regionale Manlio Messina Ipotesi truffa ai danni dello Stato per fedelissimo Meloni
Diciotto giorni trascorsi senza particolari sussulti. Giusto il tempo per dichiarare ufficialmente estinta, per avvenuta prescrizione, l’accusa di truffa aggravata ai danni dello Stato. Ipotesi di reato che pendeva da quattro anni sulla testa di Manlio Messina, assessore regionale allo Sport e al Turismo e fedelissimo di Giorgia Meloni in Sicilia. L’udienza di oggi così si è trasformata in una pura formalità, come già anticipato da MeridoNews. Poco più di due settimane fa l’ultima udienza nei locali dell’ex pretura di via Francesco Crispi, utile per calcolare con esattezza i termini per mettere in archivio il caso. I fatti d’altronde risalivano a sette anni e mezzo fa, quando Messina occupava uno degli scranni del Consiglio comunale di Catania.
Insieme all’assessore, entrato nel governo Musumeci dopo Sandro Pappalardo, anche lui di Fratelli d’Italia, c’erano imputati Giuseppe Anastasio Privitera e Daniele Agatino Belfiore. Entrambi soci amministratori della PRI.BEL, la società in cui dal 2010 Messina sarebbe stato assunto con il ruolo di direttore commerciale. Sotto i riflettori della guardia di finanza finì proprio l’incarico a Messina e i rimborsi percepiti dall’impresa e sborsati dal Comune, durante il mandato da consigliere. Un «ingiusto profitto», secondo i pm pari a 31mila 450 euro che la legge concede ai datori di lavoro per gli impegni istituzionali dei suoi dipendenti.
In realtà, per la procura, Messina non avrebbe potuto assolvere ai suoi compiti da direttore commerciale per le «incombenze istituzionali, inducendo quindi il Comune in errore in relazione all’esistenza dell’effettivo rapporto di lavoro», si legge nel decreto che dispone il giudizio. Per l’accusa, in soldoni, si sarebbe trattato di un «rapporto di lavoro simulato». Contestazioni rimaste solo sulle carte, anche perché a caratterizzare il processo sono stati dei continui rallentamenti. In particolare le tante notifiche andate a vuoto e i rinvii a distanza di mesi.