Piero Grasso e Giusto Sciacchitano, i ‘rieccoli’ dell’Antimafia

Un articolo pubblicato ieri su Il fatto quotidiano ha puntato i riflettori su due alti magistrati. Il primo è il Procuratore nazionale antimafia. Il secondo lo si incontra spesso nelle cronache che riguardano la Gas spa, la holding che, dai primi anni ’80 del secolo passato fino ai primi anni del 2000, ha operato nel settore della metanizzazione in Sicilia e in altre regioni del nostro Paese. Abbiamo deciso di riportare quasi per intero l’articolo, limitandoci a qualche commento un po’ più ‘siciliano’, visto che siamo siciliani e visto che ci occupiamo di certe ‘storie’ da oltre venticinque anni

Il racconto de Il fatto quotidiano inizia nel 1992, quando “il Csm bocciò la sua richiesta di assegnazione alla Dna (Direzione nazionale antimafia ndr) dopo che Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, lo aveva accusato di aver posto suo padre in una condizione di pericoloso isolamento, tre mesi prima di finire ucciso dalla mafia”.

I fatti risalgono all’agosto del 1980, quando viene ucciso dalla mafia il procuratore Costa.

“Oggi, a 72 anni suonati – leggiamo sul quotidiano diretto da Antonio Padellaro – alla vigilia della pensione, Giusto Sciacchitano è l’uomo indicato dal capo della Dna, Pietro Grasso, come il più idoneo a ricoprire il ruolo di numero due degli uffici di via Giulia. Dopo le polemiche che hanno travolto l’ex aggiunto, Alberto Cisterna, già indagato (e archiviato) per corruzione in atti giudiziari e oggi accusato di avere truffato l’Università del Mediterraneo di Reggio Calabria, al suo posto al vertice dell’Antimafia giudiziaria arriva ora un magistrato che da trent’anni è noto alle cronache e ai salotti palermitani non per le sue inchieste contro le cosche, ma per un unico provvedimento che non volle firmare”.

Qui comincia il racconto sulla primavera-estarte del 1980. “Era la mattina del 9 maggio 1980 quando tutti i sostituti della Procura di Palermo, tranne uno (Vincenzo Geraci), si dissociarono dal procuratore Costa nella convalida di decine di ordini di cattura contro il clan Gambino-Spatola-Inzerillo, accusato di un colossale traffico di stupefacenti. Tra quei sostituti, oltre a Sciacchitano , anche un giovanissimo Pietro Grasso, allora pm alle prime armi, che vent’anni dopo ha ammesso pubblicamente il suo errore. Non solo. Sarebbe stato proprio Sciacchitano, uscendo dalla stanza del procuratore, a indicare ai giornalisti e agli avvocati dei mafiosi il suo capo come l’unico responsabile dei provvedimenti di cattura, determinando quella solitudine che lo scrittore Leonardo Sciascia definì ‘una spiegazione dell’omicidio di Costa’. L’episodio, sempre smentito dal diretto interessato, è finito agli atti del processo per l’uccisione del procuratore, avvenuta il 6 agosto del 1980 a Palermo. Sono gli anni in cui, come ha testimoniato il medico Enzo Alessi, Sciacchitano partecipa a una cena a casa del mafioso, poi pentito, Angelo Siino (allora sconosciuto, divenuto poi il “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina”), dove si sarebbe discusso di una promozione per il medico Giovanni Mercadante, tuttora sotto processo per mafia”.

Per la cronaca, Angelo Siino è il mafioso pentito che un giovane Totò Cuffaro, nel 1991, allora candidato alle elezioni comunali di Palermo andò a trovare: cosa, questa, che è stata rimarcata, come fatto grave, dai pubblici ministeri che hanno indagato e fatto condannare Cuffaro a sette anni di carcere.

“Ma le accuse più gravi – leggiamo sempre nell’articolo del Il fatto quotidiano – arrivano da Massimo Ciancimino, convinto che Sciacchitano avrebbe ricoperto negli anni ‘80 il ruolo di ‘talpa’ del Palazzo di Giustizia, avvertendo don Vito (il papà di Massimo, cioè Vito Ciancimino, esponente della Dc di Palermo negli anni ’50, ’60, ’70 e ’80 ndr) dell’imminente sequestro dei suoi beni, disposto da Giovanni Falcone, e consentendogli di mettere in salvo una parte del patrimonio. Per queste dichiarazioni, il magistrato ha annunciato un’azione civile di risarcimento nei confronti di Ciancimino jr.”.

“Le nuove rivelazioni del figlio di don Vito – si legge sempre nell’articolo – sono alla base del nuovo esposto di Michele Costa alla Procura di Catania e della lettera a Giorgio Napolitano in cui il figlio del procuratore ucciso ricorda il vecchio episodio del 9 maggio 1980, definendo quello di Sciacchitano ‘un comportamento particolarmente odioso’. Al capo dello Stato, Costa segnala che ‘pur avendo ritenuto quel comportamento censurabile, il Csm non comminò a Sciacchitano neppure la più lieve delle sanzioni’. Dopo la bocciatura del ’92, infatti, Sciacchitano fa il suo ingresso negli uffici di via Giulia, come sostituto, pur tra divisioni e proteste sulla prassi seguita dall’allora procuratore Pier Luigi Vigna. Studi in seminario, prima a Palermo poi a Roma, laurea in Giurisprudenza alla Pontificia Università Lateranense, Giusto Sciacchitano è ritenuto vicino ad ambienti Vaticani e in particolare al cardinale Gianfranco Ravasi, diacono della basilica romana di San Giorgio al Velabro”.

 

“Potenti amicizie porporate – leggiamo sempre nell’articolo – che non gli hanno evitato, in anni più recenti, di finire al centro di nuove dichiarazioni di Massimo Ciancimino che, con l’avvocato Giovanna Livreri, lo accusa di avere condizionato l’inchiesta palermitana sul gruppo Gas, la società che Ciancimino gestiva con Ezio Brancato, ex consuocero di Sciacchitano per le nozze della figlia Monia con il primogenito del magistrato. Per quelle accuse, con Sciacchitano sono finiti sotto inchiesta alcuni sostituti palermitani, e il pm di Catania Antonino Fanara, pur sostenendo che i colleghi del capoluogo ‘avevano omesso di approfondire degli elementi di prova’ e che Monia Brancato ed il padre “erano persone che il magistrato Giusto Sciacchitano ben conosceva e frequentava”, chiese e ottenne dal gip Giuliana Sammartino l’archiviazione del fascicolo”.

 


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