Piccoli crimini coniugali

Questa non è una recensione. Comincio con questa affermazione netta quello che vuole essere solamente un invito alla riflessione, uno spunto per nuove e brillanti discussioni. Il 24 aprile a Vittoria, nella splendida cornice del Teatro Comunale “Vittoria Colonna”, è andata in scena Piccoli crimini coniugali, di Eric – Emmanuel Schmitt, per la regia di Sergio Fantoni e con l’interpretazione della splendida Andrea Jonasson (penultima moglie di Strehler, ma è riduttivo ricordarla solo per questo) e di Massimo Venturiello. Prima della messa in scena si è svolta una conferenza stampa con il produttore dello spettacolo e gli interpreti e, tra il pubblico, gli studenti del liceo scientifico di Vittoria che hanno avviato un’interessante discussione sui rapporti tra giovani e teatro; e su questo vorrei fermare la mia attenzione.
Cos’è il teatro oggi? Come è visto il teatro dai giovani e perché il pubblico medio degli spettacoli teatrali è coetaneo del biblico Matusalemme? Gli interrogativi spaziavano tra questi argomenti e le risposte non erano, né potevano esserlo, definitive. Allora cos’è questo teatro? Un oggetto misterioso, un medium che appartiene al passato, un antenato del cinema, un residuo del giurassico rispetto ad internet? È possibile che ogni evento comunicativo per le nostre generazioni necessiti della mediazione di uno schermo? È come se si volesse restare sostanzialmente estranei al contatto, come se si dovesse esprimere la necessità di conoscerci ma fino ad un certo punto. Le emozioni ci fanno paura, forse anche la vita reale ci crea qualche problema. Meglio comprare su internet, lo sport lo facciamo sulla Playstation, uno spettacolo lo vediamo in un telefonino così nessuno potrà disturbare la nostra tristissima solitudine. Ma come si è giunti a questo stadio? Siamo amanti disinvolti in un messenger, non riusciamo a guardare negli occhi un viso che ci sconvolge. In “Crash”, film pluripremiato dall’Accademy Award, il contatto fisico è spesso occasione di scontro, lo stesso posare uno sguardo su qualcuno è invaderne la sfera emotiva. E poi ci intercettano tutto. Pensiamo di starcene al riparo dalla curiosità altrui e invece siamo in piazza, nudi. Tutti ormai abbiamo perso il coraggio delle nostre azioni. Il teatro in cui c’è un rapporto diretto, senza mediazioni, fa quasi paura, si respira quasi questo sacro terrore del confronto, della discussione seppure a livello emotivo, e si evidenzia la nostra condizione di prigionieri. Prigionieri di noi stessi, della nostra presunta libertà, quella di avere tutto il mondo in un telefonino, che genera un’agorafobia che ci impedisce di godere dell’aria aperta. Nei grandi spazi in effetti siamo sotto tiro, qualcuno potrebbe farci del male, gli attentati, le rapine, l’ansia di perdersi. Io a teatro da attore, per quel poco che ne ho fatto, ho vissuto invece un’esperienza di comunicazione intensa, reale, concreta, e forse il teatro è diventato più coinvolgente da attore che da spettatore. Lo spettatore si aggancia alle convenzioni, quasi per forza, perché non si sente mai libero di esprimersi, e applaude quando gli altri applaudono, ride quando il capocomico fa più rumore, piange quando la musica è triste. Forse si è persa la dimensione della partecipazione vera, dell’andare ad assistere ad uno spettacolo da uomo dotato di precisa identità, a godere di un evento che lo riguarda in prima persona.
Ora che ho insultato il mondo per la sua evoluzione verso modelli involuti di convivenza civile, posso dedicarmi allo spettacolo di cui sopra dove, per troppo amore, si commettono piccoli crimini, dove per incapacità comunicative e per stereotipate convenzioni si esce dalla capacità di relazionarsi in reciproca divinizzazione, credendo di possedere l’altro a livello quasi giuridico, per cui si ha il diritto di disporre dell’oggetto come si vuole. Non posso scendere nel dettaglio della trama perché, come hanno ribadito gli stessi protagonisti in conferenza stampa, svelerebbe troppo di un racconto che ha tinte noir. Posso solo dire  che la vicenda si svolge in un unico atto, in “aristotelica” unità di tempo e spazio. Gli unici protagonisti della pièce sono Lisa e Gilles, moglie e marito, e la scena si svolge nel salotto della loro casa. Di più non svelo, l’unica concessione alla vostra curiosità è il seguente pensiero di Gilles:
“La coppia è una libera associazione di assassini, uniti dalla violenza di un desiderio che li getta uno contro l’altro, tra sudore, miagolii, rantoli… la lotta si risolve, per esaurimento, in un armistizio, chiamato piacere”.
Lo spettacolo è godibile dall’inizio alla fine, grazie ad un meccanismo, ricco di piccoli stravolgimenti, che fa scorrere il tempo in un attimo. Un testo sicuramente fresco che, grazie alla splendida interpretazione dei protagonisti, riesce nell’intento di divertire e di mandare a casa lo spettatore con qualcosa su cui fermarsi a riflettere.
Le soluzioni alla crisi del teatro dunque si potrebbero trovare nel teatro stesso,  nella scrittura di lavori nuovi, nella discussione aperta del conflitto, nell’invenzione di nuove strategie comunicative, ma resta il problema di riempire i teatri. Cominciamo con l’abbassare i prezzi e con la costruzione di strutture di pubblico accesso. Poi qualcosa la faremo. Che ne dite?


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