Era il mese di novembre del 2014 quando Salvatore La Mantia, 56enne di San Gregorio con entrature negli Emirati Arabi, promise l’utilizzo di manodopera locale per il rilancio della Perla Jonica sotto l’insegna internazionale degli Hilton hotel. All’epoca, ad Acireale e non solo, si fantasticava sullo sceicco dal nome ripetitivo e dal portafoglio sufficientemente ricco da rilevare senza particolare sforzo il complesso turistico un tempo dei Costanzo e farne una meta per il turismo di lusso nel Mediterraneo. Erano i tempi in cui si parlava della possibilità di dipingere le facciate di Capomulini di un unico colore e del campanilismo ferito di chi temeva che l’hotel, alla fine, potesse prendere il nome di Hilton Catania. Sette anni dopo quell’annuncio, lungo la discesa che conduce a un tratto di mare tanto bello quanto interdetto alla balneazione per mancanza di un depuratore, non c’è traccia di fasti. L’asfalto porta i segni del passaggio di un gregge mentre sulla sinistra si staglia lo scheletro di cemento. All’interno dell’area recintata un branco di cani mostra di non essere abituato a percepire presenze estranee.
L‘Hilton non è mai stato realizzato e difficilmente nel prossimo futuro ci sarà un rilancio dell’ex Perla Jonica. L’impresa che doveva realizzarlo, la Item Capomulini, è fallita il 29 ottobre 2020 e poco più di un mese dopo il tribunale di Catania si è espresso allo stesso modo per la Item Holding, la società madre di proprietà per il 90 per cento di Al Hamed Ahmed Ahmed – 28enne figlio dello sceicco di Abu Dhabi Al Hamed Hamed Bin Ahmed – e per il restante dieci per cento di La Mantia. Riposti in cantina il sogno di una svolta occupazionale per il territorio, la vicenda dell’ex Perla Jonica ha trovato spazio in tribunale. Le domande che attendono risposta, tuttavia, restano tante. A partire dalla principale: perché l’affare è fallito? Qualche risposta la si può tentare di dare guardando i bilanci e i documenti della società, dalla sua costituzione fino al fallimento.
Dalle garanzie del Mise all’insolvenza
L’ex Perla Jonica fu acquistata dalla Item Capomulini nel 2014, dopo cinque anni di battaglie legali e contenziosi con la famiglia Costanzo. Questi ultimi erano gli storici proprietari fino al momento in cui il bene passò sotto amministrazione giudiziaria. Per avviare il processo di trasformazione in hotel di lusso, la Item Capomulini aveva ottenuto un finanziamento da 24 milioni di euro da Monte dei Paschi di Siena. A garantire per l’impresa era stato il ministero per lo Sviluppo economico, tramite Invitalia. Sulla carta si sarebbe dovuto trattare di una prima parte del prestito utile a completare l’opera, in realtà quelle somme non sono mai state restituite nonostante la decisione della banca, nel 2016, di concedere una proroga di un anno.
Nonostante il rischio di non avere più un sostegno finanziario, la società ha più volte tentato di portare avanti l’opera. Tra il 2014 e il 2016 sono stati tre i general contractor incaricati di realizzare i lavori: prima Volteo Energia, poi Vittadello e Stancanelli Ernesto srl, infine Inso spa. Il rapporto con ognuno di essi, tuttavia, non è durato molto per una serie di dispute che hanno avuto anche risvolti giudiziari: nel primo caso, la guardia di finanza ha accusato la Volteo di avere usato parte dei soldi ricevuti per finalità diverse, mentre negli altri due le criticità hanno riguardato anche i pagamenti degli stati di avanzamenti dei lavori, con tanto di contenziosi legali che hanno fiaccato ancora di più le casse di Item. Da quanto fin qui è trapelato da piazza Verga, la situazione finanziaria della società sarebbe stata già critica nel 2016, al punto che già allora sarebbe stato da valutare lo stato d’insolvenza.
Non solo lo sceicco. Gli altri protagonisti
Nella storia di quello che doveva essere il primo Hilton della Sicilia lo sceicco è il personaggio più altisonante. Ma le figure che hanno avuto un ruolo nelle compagini sociali sono diverse, qualcuno anche con un’importante carriera alle spalle. È questo, per esempio, il caso di Riccardo Sessa. Classe 1947, Sessa vanta una carriera di diplomatico che lo ha portato in giro per il mondo. Nel suo curriculum ci sono le esperienze da ambasciatore a Belgrado, Pechino e Teheran. Il nome di Sessa compare nella visura camerale della Item Holding – la società che controlla Item Capomulini e che è stata dichiarata fallita a dicembre 2020 – nelle vesti di presidente del consiglio d’amministrazione.
Detto di La Mantia, a svolgere il ruolo di amministratore unico di Item Capomulini nei due anni prima del fallimento sono stati il chietino Carmine De Vitis e il commercialista palermitano Antonino Imburgia. Imburgia è socio in un’impresa che si occupa di consulenza aziendale di Angelo Cuva, il professore a processo perché accusato di avere fatto parte del telefono senza fili che, dal direttore dei servizi segreti Arturo Esposito e passando per l’ex presidente del Senato Renato Schifani, avrebbe rivelato ad Antonello Montante l’esistenza di un’indagine sul suo conto. Come verificato da MeridioNews, i nomi di La Mantia, De Vitis e Imburgia compaiono – a vario titolo – anche nella documentazione relativa a una società maltese, la Mills Cape Limited, citata anche nei Paradise Papers. Nel database – scovato qualche anno fa dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e che raccoglie milioni di documenti su investimenti off shore – tra i soci della Mills Cape Limited viene indicato anche Hamed Ahmed Bin Hamed Al Hamed, sceicco di Abu Dhabi.
Un giocattolo difettoso messo da parte
Potrebbe essere questa la giusta allegoria per riassumere cosa sia stata la Item per lo sceicco. Il 55enne, per quanto formalmente soltanto consigliere della Item Holding, è da ritenere il vero proprietario della società. Non soltanto per la sproporzionata potenza finanziaria, ma anche per una serie di operazioni che, nel corso degli anni, sono state fatte dalla Item Capomulini ma che nulla sembrerebbero avere a che fare con il rilancio della struttura, mentre potenzialmente potrebbero essere collegati agli interessi di un esponente di una famiglia reale.
Il primo episodio curioso risale a un periodo compreso tra il 2009, un anno dopo la costituzione della società. All’epoca l’acquisto della ex Perla Jonica è ancora lontano dall’essere definito. L’impresa – inserendolo tra i costi aziendali – acquista una Ferrari California che due anni dopo rivende allo stesso Hamed Bin Ahmed Al Hamed. Ma la spesa più particolare è un’altra: avviene lo stesso anno e riguarda una somma di poco più di 63mila euro erogata alla filiale di Dubai della Bell Pottinger. Quest’ultima è una società di lobbying britannica, finita più volte nel mirino delle critiche perché accusata di avere orientato l’opinione pubblica con operazioni poco trasparenti: dalla creazione di video bufale sul terrorismo negli anni Duemila per conto degli Stati Uniti all’alterazione di pagine di Wikipedia nell’interesse del governo uzbeko, fino ad avere influito nelle tensioni interazziali in Sud Africa. Attività, quelle della Bell Pottinger, che non è chiaro come possano avere contribuito al processo di ristrutturazione dell’ex Perla Jonica.
Valutazioni irreali
A colpire è anche la valutazione che è stata data del complesso alberghiero: acquistato per circa 26,6 miloni di euro, a fine 2019 il valore indicato in contabilità supera i 65 milioni. La cifra però viene smentita nel momento in cui, due mesi prima di fallire, la Item commissiona una perizia. Il responso è chiaro: il valore di mercato individuato dell’ex Perla Jonica era di 12 milioni. Ovvero cinque volte di meno.
Nessuno degli amministratori e dei componenti del consiglio d’amministrazione di Item Capomulini e Item Holding risulta indagato.
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