Tra i motivi per cui il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha rigettato la richiesta di scarcerazione del boss c'è il timore che possa tornare al comando. Dello stesso avviso sono la Direzione investigativa antimafia e l'ex magistrato Giuseppe Di Lello. E Messina Denaro? «Comanda nella sua provincia, in altre non avrebbe vita facile»
Perché Totò Riina è ancora il capo di Cosa nostra Dia: «È uno status che non si perde con il carcere»
Totò Riina è ancora il capo dei capi? La domanda da giorni accompagna il dibattito sulla compatibilità o meno delle condizioni di detenzione del boss di Corleone con il suo stato clinico, dopo che la Cassazione ha chiesto al tribunale di Sorveglianza di Bologna di motivare nuovamente – e meglio – il proprio no alla richiesta del legale Luca Cianferoni di un differimento della pena o di un passaggio dal regime del 41bis agli arresti domiciliari.
Se per capire quale sarà il futuro da detenuto di Riina bisognerà attendere un nuovo pronunciamento dei giudici, ciò su cui si può ragionare è il suo ruolo all’interno di Cosa nostra: a quasi 87 anni e con gli ultimi 24 trascorsi dietro le sbarre, Totò u curtu può essere considerato ancora il vertice della mafia siciliana? Nonostante i periodici tentativi di ricostruire la gerarchia dell’organizzazione criminale da parte di stampa ed esperti, con nomi – su tutti quello del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro – citati come eredi del boss, per chi ha perseguito e continua a perseguire Cosa nostra la risposta è chiara: di capi, la mafia ne ha uno solo e il suo nome è Totò Riina.
«Anche le organizzazioni criminali hanno bisogno di regole e, per quanto non siano codificate, sono ferree e vengono osservate – fanno sapere dagli uffici della Direzione investigativa antimafia di Palermo -. In Cosa nostra il capo conserva la propria carica anche con lo stato della detenzione. Questo vale per Riina. La reggenza è una carica sostitutiva e temporanea, ma nel caso in cui, per qualsiasi motivo, il capo esca dal carcere riprende il suo posto». Il reggente, in tal senso, non si sostituisce mai a pieno al leader. «Una dimostrazione sono i pizzini trovati a Montagna dei Cavalli nel covo di Provenzano – prosegue la Dia -, dove il boss diceva di non potere prendere decisioni ma di potere dare soltanto consigli. Molti hanno parlato di modestia del boss, ma il motivo stava nel fatto che Provenzano non era il capo di Cosa nostra neanche dopo l’arresto di Riina, in quanto nessuno lo aveva mai investito ufficialmente delle funzioni di capo».
Cosa dire allora di Matteo Messina Denaro? «Lo si può considerare di certo un autorevole punto di riferimento sul territorio, quello probabilmente con il più ampio margine di azione tra quelli latitanti, ma di certo non il capo di Cosa nostra». A incidere in tal senso non sarebbe soltanto la presenza – seppure al carcere duro – di Riina, ma anche l’assenza di una commissione regionale capace di trovare accordi su quanto avviene nell’intero territorio isolano. «In questo momento Cosa nostra attraversa una fase di transizione che fa sì che i vecchi confini tra i mandamenti non siano più rigidi come un tempo, ma si può dire, per fare un esempio, che se Messina Denaro si presentasse in un’altra provincia non avrebbe vita facile».
Dello stesso avviso è Giuseppe Di Lello, ex magistrato del pool antimafia di Palermo che lavorò a fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Riina rimane un capo per così dire teorico, perché è chiaro che quando un boss finisce in carcere alcuni poteri deve cederli, pur rimanendo comunque il vertice – spiega -. Messina Denaro è il capo della sua provincia, così come a Palermo dominano i fratelli Lo Piccolo, che sono in galera ma che, tramite qualche loro accolito, portano avanti il proprio potere».