Perché scrivere? L’università analfabeta

Da parecchio tempo, ormai (e lode a Rosa Maria Di Natale che ha avuto il coraggio di scriverlo), il lavoro di chi vuole seguire la preparazione delle tesi – e ancora di più fare da correlatore – con qualche serietà consiste per lo più in una sfiancante lotta contro i tentativi di copiatura, armati di “Google ricerca avanzata” e soprattutto di pazienza. Finito questo lavoraccio, a prescindere dal risultato, di tempo e lucidità per affrontare il merito degli elaborati ne restano ben pochi (il tutto a discapito delle cose che erano effettivamente meritevoli), e ci si trova sconsolati a pensare che, in fondo, il nostro lavoro avrebbe dovuto essere un altro.
Ogni volta che si parla di queste cose con gli studenti beccati con le mani nella marmellata, le reazioni prevalenti (ma non le sole, per fortuna) sono due: o gli occhioni sgranati (“ma non si fanno così, le tesi?”), o il vero sport nazionale, la chiamata di correo (“tutti lo fanno, anche voi professori”) per cui siamo tutti colpevoli, e non c’è nessun colpevole – e alcuni dei commenti all’articolo della collega esemplificano assai bene la faccenda. A quelli che dicono “ma perché devo farlo io, con risultati scadenti, se posso farlo fare a chi è più bravo di me?” verrebbe da rispondere “fai così anche la sera, con la tua ragazza?”. Ma tant’è.

Dalle parole della collega – ma soprattutto dai commenti – sono emersi parecchi temi importanti: l’etica e la responsabilità in primis (per quanto in pochi sembrino capire che la prima consiste soprattutto nell’accettazione della seconda). Poi c’è il ruolo delle nuove tecnologie, che consentono il reperimento semplice e immediato di informazioni, senza però che il controllo dell’affidabilità e del prestigio delle fonti sia altrettanto immediato – ma su questo ben più di me sa e può dire Rosa Maria (e, probabilmente, chiunque lavori in questo giornale). Detto per inciso che gli studenti dovrebbero ricordare che non tutti i docenti sono nelle stesse condizioni (perché in troppi devono fare un altro lavoro per poter anche insegnare – ormai sostanzialmente gratis – all’Università), vorrei andare a un tema che mi preme perfino di più.

Il problema della copiatura mi sembra a volte la punta dell’iceberg di qualcosa ben più grave: i ragazzi non sanno (e non vogliono!) più scrivere. I dati OCSE (e i continui appelli di Tullio De Mauro, tra gli altri) dovrebbero gettarci nel terrore, e invece ce ne stiamo qui tranquilli e soddisfatti. Le sacrosante battaglie contro la rigidità della forma-tema e la normatività delle regole di scrittura sembrano aver portato il risultato contrario a quello atteso: invece di differenziare le proprie abilità scrittorie su diversi registri e competenze, molti studenti (e, ancor prima, alunni) non ne padroneggiano ormai nemmeno una (ed è questo che ci permette di “beccare” spesso facilmente i pezzi copiati): la media di errori morfosintattici che si trova in certe tesi è ben maggiore di quella che si sarebbe potuta trovare in un temino di terza media venti anni fa. Per questo i “corsi zero” di italiano al liceo e all’Università (quando c’erano i soldi per farli), inizialmente progettati per gli stranieri, sono stati spesso usati a vantaggio dei madrelingua italiani: per cercare di fare qualcosa. Di fronte a questo, è giusto chiederci tutti cosa possiamo fare, e dove dobbiamo intervenire per fare ognuno la nostra parte, prima che sia davvero troppo tardi. L’ultima cosa da fare, invece, è affermare qualcosa del genere: “Se non sbaglio, l’obiettivo di una università può essere sintetizzato in “fornire e controllare le nozioni di uno studente”, e non in “vediamo quant’è diventato bravo a scrivere”.
No, caro amico/a, a mio giudizio sbaglia eccome, anzitutto perché qui non si tratta di bravura, ma di decenza – di standard minimi sotto i quali non c’è comunicazione, né reale elaborazione del pensiero, possibile. Se io posso discutere il suo punto di vista, è perché lei l’ha espresso perspicuamente per iscritto. E’ innegabile che “migliorare le proprie capacità di scrittura, espressione e creazione, può essere una conseguenza dello studio universitario, ma ciò non si verifica sempre”. Ma questo è un fatto – non una necessità. E la giustificazione del maggior numero non può essere una reale giustificazione (mi ricorda quella vecchia battuta: “Mangiate cacca! Miliardi e miliardi di mosche non possono sbagliarsi..!”).

Si pensa parlando, e scrivendo. Bene. Non solo in una Facoltà di lingue (che di questa cosa dovrebbe fare il valore per eccellenza), ma in ogni luogo, e momento, e contesto. La sua distinzione tra “nozioni” e “bravura nello scrivere” mi ha ricordato un po’ un noto passo di Hobbes (De Cive), che recita “ed invero i nomi servirebbero ad un uomo anche se esistesse solo lui al mondo [perché] presi ad uno ad uno, sono note, giacché richiamano i pensieri anche isolatamente”. Egli aggiungeva però che i nomi sono anche segni, e come tali servono “per significare e dimostrare le cose delle quali ci ricordiamo” (ibid.). E se non avesse saputo scrivere – e così bene – certo noi non staremmo lì a leggerlo ancora, e a riflettere fruttuosamente sulle sue nozioni/notae (che sono anche le sue parole). Detto con un paradosso: posso accettare di discutere sul fatto che scrivere bene (o almeno decentemente) non serva a niente solo con chi me lo sa scrivere (bene, o almeno decentemente).

E se questo non accade, vuol dire che l’Università e la scuola avranno fallito (in uno dei loro compiti principali), e che gli analfabeti laureati, con tutta la loro tranquilla soddisfazione, sono destinati a farsi fregare, in ogni momento, dal primo che passa.

*Ricercatore Università della Calabria, già docente a contratto dell’Università di Catania


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