Perché non nazionalizzare le banche?

da Vladimir Ninel
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il generale Agosto è alle porte, i componenti della compagine governativa nazionale si affannano a ricercare responsabilità sull’innaturale velocità indigena alla base dell’espulsione della Shalabayeva mentre sullo sfondo tutte le irrisolte questioni a noi note: dalla ventennale questione del conflitto di interessi di berlusconiana memoria pervasa dalla volontà politica bipartisan a non ammetterla a soluzione, alla ormai atavica mancata programmazione di investimenti, necessaria per creare lavoro produttivo e duraturo.

La mancanza di lavoro, vera peste del nostro tempo, ci impone una riflessione sull’attuale situazione socio-economica del nostro Paese allo scopo di fare emergere un dibattito sull’individuazione di un percorso politico che ci potrebbe consentire di avviare la fuoriuscita dalla depressione economica che attanaglia i lavoratori, gli imprenditori e la società in genere.

Ci siamo resi conto che non bastano le super intelligenze alla guida del nostro Paese per creare lavoro, queste sono sufficienti ad introdurre ulteriori balzelli che hanno l’effetto di soffocare la crescita.

Il ragionamento che verrà posto si basa, non solo da alcune semplici congetture economiche, ma anche da una rivisitazione storica, senza avere la pretesa di essere esaustivi, di alcuni momenti, a mio avviso, fondamentali della storia socio-economica del secolo scorso, nella speranza che almeno la conoscenza del passato possa giovare ad indicare politiche che favoriscano l’occupazione di quanti hanno perso lavoro e di coloro, le nuove generazioni, che il lavoro non l’hanno ancora conosciuto.

Spesso ci si chiede se privatizzare un determinato settore aumenti la competizione, ovvero se la concorrenza tra i soggetti che operano in quel settore determini un calo dei prezzi, agendo in tal modo in favore dei consumatori.

È vero? In parte, ma non sempre.

La competizione portata all’estremo non solo fa calare i prezzi ma abbatte anche la qualità del servizio o della merce. E, specialmente, quando la merce è un genere alimentare, non ne consegue solo uno peggioramento della qualità, ma anche un ingente costo, nel tempo, a carico del sistema sanitario, specialmente se questo costo è sostenuto dal sistema pubblico. Pensiamo, ad esempio, a quanto accade negli Stati Uniti d’America dove il sistema sanitario è solo parzialmente pubblico e dove milioni di persone riescono a mangiare con pochi dollari, ma poi in gran parte diventano obesi o diabetici. E dato che normalmente questi soggetti non hanno la polizza sanitaria e arrivano ad essere curati solo quando il loro stato di salute è grave e cronico, il costo di queste malattie diventa altissimo.

Questa situazione potrebbe essere in qualche misura evitata se il sistema delle regole e dei controlli fosse molto severo, ma noi sappiamo che gli stessi che spingono sulle liberalizzazioni vogliono sempre anche pochi o nulli controlli (salvo quelli a protezione dei loro marchi), in quanto i controlli e i limiti sono sempre visti come un freno alla libera impresa.

Pertanto è già possibile sostenere che per questi settori, cosiddetti “sensibili”, le privatizzazioni è molto meglio evitarle, mentre in altri settori come ad esempio il tecnologico il via alle liberalizzazioni potrebbe avere effetti positivi sul mercato e quindi sull’occupazione.

Ma ci sono anche i casi dove invece sarebbero consigliabili le nazionalizzazioni, soprattutto in una fase di crisi acuta come questa che stiamo vivendo. Il riferimento è ovviamente al settore finanziario e a quello delle banche.

Ci si chiede che senso ha sostenere le grandi banche e non prenderne invece direttamente il controllo e offrire il credito ad imprenditori, lavoratori e famiglie ad un tasso di interesse inferiore da quello offerto dalla medesime banche? Non è pensabile che le banche ottengano il denaro dalle banche centrali ad un tasso di interesse appena sopra all’1% e lo rimettono sul mercato all’8%.

La nazionalizzazione delle banche trova già esempi in un passato recente come si vedrà più sotto. La nazionalizzazione delle banche potrebbe costituire un passo decisamente importante verso la ripresa economica del nostro Paese. Un dato è certo: non è l’attuale compagine Governativa indigena composto da banchieri che si può intestare una simile azione.

Vi è la necessità che la Politica, con la P maiuscola, prenda il sopravvento ed abbia la forza di togliere potere al sistema bancario che attanaglia e stritola l’intero sistema Italia. Con la nazionalizzazione delle banche verrebbe evitato il fallimento e, quindi, verrebbe evitata la ricaduta delle conseguenze sul piano sociale ed economico.

Il concetto di nazionalizzazione, in genere, è un argomento politico di destra o di sinistra ?

Alla nazionalizzazione hanno fatto ricorso presidenti di destra. Fu il repubblicano Richard Nixon (nella foto a sinistra, tratta da wikipedia) nel 1971 a varare il salvataggio dell’azienda di armamenti Lockheed trasferendola temporaneamente sotto la tutela pubblica. Negli anni Ottanta Reagan firmò un’ analoga nazionalizzazione di Chrysler, Bush padre lo fece con le casse di risparmio in bancarotta (Savings and Loans). Tutte quelle operazioni ebbero un costo assai modesto rispetto ai salvataggi bancari in atto oggi. Ma hanno un elemento in comune. Le nazionalizzazioni americane sono state quasi sempre provvisorie, la risposta a un’emergenza.

Appena possibile il governo ha riprivatizzato quelle aziende. Non fu molto diverso neppure l’atteggiamento di Franklin Delano Roosevelt durante la crisi del ‘29. Benché i suoi avversari lo accusassero di essere un socialista, al contrario era un liberale pragmatico disposto a sperimentare qualsiasi ricetta pur di superare una crisi spaventosa come quella del ’29.

Roosevelt non si ispirò all’Unione Sovietica, ma guardò con interesse all’Italia fascista. Dopo il crac del ‘29 il consigliere di Mussolini, Alberto Beneduce, salvò dal fallimento le maggiori banche italiane con l’ingresso dello Stato nel loro capitale, poi inventò l’Iri (anche queste originariamente dovevano essere soluzioni provvisorie, in realtà in Italia lo Stato padrone durò oltre mezzo secolo).

Roosevelt (nella foto a destra tratta da guardian.co.uk) imboccò la strada delle nazionalizzazioni in modo molto pragmatico, creando la Tennessee Valley Authority. La Tennessee Valley Authority è una società di proprietà federale negli Stati Uniti creata da un atto costitutivo del Congresso nel maggio del 1933 per fornire navigazione, controllo delle piene, produzione di energia elettrica, produzione di fertilizzanti e lo sviluppo economico nella Valle del Tennessee, una regione particolarmente colpita dalla crisi del ‘29. Creando la Tennessee Valley Authority, Roosevelt, diede vita a un’azienda di Stato nell’energia elettrica per spezzare l’oligopolio dei privati e influenzare le tariffe.

Bisogna andare in Europa per trovare un altro tipo di nazionalizzazione: teorizzata come una soluzione superiore alla proprietà privata; più equa o più efficiente; più conforme a difendere l’interesse nazionale; più benefica per i lavoratori e per i cittadini.

La madre di tutte le nazionalizzazioni è l’esproprio dei beni della Chiesa deciso dalla Rivoluzione francese nel 1789. Con l’avvento del pensiero socialista il ricorso alle nazionalizzazioni diventa sistematico: i bolscevichi in Russia aboliscono la proprietà privata delle terre nel 1917, quella delle banche e dell’industria nel 1918: come voleva Marx, i mezzi di produzione vanno collettivizzati nella dittatura del proletariato (la stessa strada imboccata da Mao Zedong in Cina nel 1949).

In Francia lo statalismo ha radici profonde in diverse tradizioni politiche e le nazionalizzazioni sono state bi-partisan: nel 1936 il Fronte Popolare requisì le ferrovie e la nascente industria aeronautica; tra il 1944 e il 1946 Charles De Gaulle espropriò la Renault, le quattro banche principali, il trasporto aereo, le miniere, l’energia elettrica e il gas.

L’ultima celebre ondata di nazionalizzazioni fu lanciata dal socialista François Mitterrand nel 1982 e portò sotto il controllo dello Stato tutte le maggiori imprese industriali e bancarie: al termine, nel 1983, il 25% dei lavoratori francesi apparteneva al settore pubblico.

In Inghilterra il Labour Party nazionalizzò il carbone nel 1946, l’energia elettrica nel 1947, le ferrovie nel 1948, l’acciaio nel 1967, la Rolls-Royce aeronautica nel 1971 e infine la casa automobilistica British Leyland nel 1976.

Talvolta ci furono le nazionalizzazioni-salvataggio per impedire la scomparsa di aziende moribonde, ma ritenute strategiche o socialmente vitali. Altre volte i governi europei (non sempre e soltanto di sinistra) hanno visto nella proprietà pubblica la migliore cura contro le rendite parassitarie nei «monopoli naturali» come l’energia, le telecomunicazioni, i trasporti, la radiotelevisione.

Così fu motivata in Italia la creazione dell’Enel e la nazionalizzazione dell’energia elettrica decisa dal primo governo di centro-sinistra nel 1962: l’ente pubblico subentrava a una giungla di oltre mille operatori privati che avevano impoverito il consumatore, creando per di più gravi disparità regionali.

L’ondata delle de-nazionalizzazioni lanciata da Margaret Thatcher nel 1979 non fu solo una svolta ideologica, la conseguenza di un ribaltamento quasi universale nei rapporti di forze tra destra e sinistra. Pesavano altrettanto le innovazioni tecnologiche. In molti settori – cominciando dalle Telecom – divenne obsoleto il concetto di “monopolio naturale”. I progressi di efficienza erano agevolati dalla competizione fra attori privati.

In qualche caso l’azionista pubblico ha resistito con buoni risultati: la Francia non avrebbe una leadership mondiale nell’energia nucleare e nell’alta velocità ferroviaria, se quei settori fossero stati risucchiati nella logica del profitto di breve periodo che caratterizza le società private. La proprietà pubblica però non è sempre una garanzia, né per il contribuente né per il consumatore: proprio in Francia uno dei più gravi scandali finanziari dal dopoguerra ha avuto come protagonista il Crédit Lyonnais quando era di pubblico. infatti a partire dal 1988 l’istituto di credito divenne il centro di diverse speculazioni finanziarie, fino allo scoperto che lo pose in bancarotta nel 1993 a causa del finanziamento non rientrato rivolto all’acquisto della MGM da parte di Giancarlo Parretti.

Quali conclusioni da rassegnare alle nostre riflessioni. Vi sono dei settori cosiddetti “sensibili” che è un bene per i cittadini che restino in mano pubblica, altri settori la cui privatizzazione potrebbe portare dei benefici ai cittadini in termini di crescita dell’occupazione ed altri settori come quello delle banche che, in condizioni straordinarie, come quelle attuali che stiamo vivendo, devono essere urgentemente nazionalizzate e gestite direttamente dallo Stato. Lo Stato deve subentrare agli azionisti privati per scongiurare nuovi fallimenti che possono minacciare la sicurezza nazionale o creare danni sociali insopportabili.

Lo Stato, quindi, deve disubbidire agli ordini di chi muove le fila della politica europea e deve intervenire in maniera massiccia per rilanciare la domanda interna utilizzando la leva della spesa pubblica come panacea economica della stagnante depressione, della sottoccupazione ovvero disoccupazione di risorse umane. Ciò significherebbe mettere in atto un’inversione di tendenza rispetto alle attuale politiche economiche che impropriamente vengono definite di stabilità ma che più precisamente dovrebbero essere chiamate di depressione e di soffocamento.

Cessata la straordinarietà della crisi e consolidato un nuovo ordine sociale, si può tornare alla situazione ante recessione, ma con un nuovo sistema finanziario, certamente, meno speculativo dell’attuale.

Ovviamente in tutti i casi vi è la necessità di un sistema di regole e di controlli molto severo, quel sistema di regole e di controlli che attualmente non esiste e soprattutto necessitano uomini di enorme spessore etico che pongono l’interesse dello Stato al di sopra di quello personale.

Personalmente sono assolutamente contrario alla pena di morte, ma sono altrettanto contrario all’impunità per tutti quelli che rubano protetti dalla mancanza di regole che serve solo per rubare di più.

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