Nell’era dei contratti precari, dei lunghi stage formativi e dei periodi di prova non retribuiti c’è chi prende di petto la situazione e si domanda: Perché lavoriamo?. Se ne è parlato ieri pomeriggio all’ex Monastero dei Benedettini in occasione del primo appuntamento con Zammù Spotlight, il nuovo format di Zammù Multimedia che si terrà una volta la mese in un diverso dipartimento dell’università di Catania. «Così porteremo la radio in giro e ci faremo conoscere oltre i confini del Monastero, dove radio Zammù è nata», spiega a MeridioNews lo speaker Mauro Gemma. E non a caso il primo incontro si è svolto proprio al dipartimento di Scienze Umanistiche. «Ci sembrava doveroso partire da qui – chiarisce la collega Renata Giordano – non solo perché siamo particolarmente legati a questo posto, ma anche per il tema trattato».
Ad inaugurare il ciclo di open lesson rompendo il ghiaccio con gli studenti lo scrittore Daniele Zito, autore di Robledo (Fazi Editore), che nel suo secondo romanzo descrive in modo provocatorio un mondo dove si lavora senza essere pagati. «Fino a cinque anni fa ero circondato da persone che lavoravano senza essere pagate, me compreso, e a un certo punto mi sono domandato il perché», spiega Zito, 37 anni. «Il mondo del lavoro è mutato e continua a mutare, cambiando volto e modalità di sfruttamento – aggiunge – mentre mi sembra che la società resti immobile, come una grande spugna che assorbe i cambiamenti e li interiorizza. Chissà quanti giornalisti che guadagnano un euro ad articolo per avere il tesserino ci sono tra di voi, quanti volontari che lavorano nei musei e nelle biblioteche, quanti che scrivono un libro senza guadagnarci pur di potersi dire scrittore».
E proprio dalle riflessioni di Zito prende spunto il discorso del primo ospite del format, Raimondo Catanzaro, docente di Sociologia e Sociologia economica nelle Università di Catania, Trento e Bologna. «Lavoriamo perché abbiamo bisogno di avere un’identità rispettabile nel mondo e nei confronti degli altri – dice a MeridioNews pochi minuti prima dell’incontro – e il lavoro è uno dei modi con cui possiamo conquistarci questa identità. Da sempre, o almeno da qualche secolo a questa parte». Se nella tradizione cristiana il lavoro era visto come una condanna e veniva svolto da schiavi e servi della gleba che erano proprietà dei padroni, tra il 16esimo e il 17esimo secolo da umiliazione diventa mestiere riconosciuto, professione, vocazione. Un fattore importante nella costruzione dell’identità della persona e dei rapporti con gli altri.
«La dimensione del lavoro coincide, a un certo punto, con quella personale e con quella di gruppo. Come dicono gli americani Niente ha più successo del successo. E il lavoro che ha successo è quello che agli occhi degli altri rende di più». Ai nostri occhi, invece, ciò che rende di più è farlo al meglio delle nostre capacità e possibilità. Se piace, e soprattutto se non piace. Perché in quel caso la sfida è ancora più grande e diventa un dovere etico. «Oltre alla sfera individuale dal lavoro dipende, in parte, anche quella sociale, poiché si creano gruppi di riferimento e cerchie di riconoscimento con cui si hanno interessi in comune e che definiscono la nostra appartenenza, i valori a cui ci ispiriamo e il modo in cui ci approcciamo agli altri», conclude il professore.
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