Perché l’America vuole la guerra in Siria? Perché lo vuole l’industria delle armi

SONO LORO, I PRODUTTORI DI STRUMENTI DI MORTE CHE, COMPLICE LA CIA, DETERMINANO LA POLITICA ESTERA AMERICANA

Sulla questione Siria gli Stati Uniti d’America sono rimasti soli con la loro prosopopea imperialista, seguite soltanto dall’altra ex potenza imperiale, la Francia, e da un’altra semipotenza in cerca d’autore, l’Australia.

Per fortuna tutti gli altri alleati degli Usa, allertati dalle false prove fornite all’Onu per l’aggressione in Iraq, questa volta non hanno abboccato alle altrettanto false prove fornite dalla Cia (l’agenzia di spionaggio internazionale americana) ad Obama sull’uso delle armi chimiche in Siria ed hanno preso le dovute distanze dalle sollecitazioni belliche avanzate dagli Usa.

Se Obama è convinto della fondatezza delle prove fornitegli dalla Cia, beh, si dia una mossa, effettui l’attacco militare alla Siria e si assuma la responsabilità di provocare la Terza guerra mondiale.

Per parte sua l’Onu, questa volta più prudente, vuole attendere l’esito delle analisi dei reperti raccolti dai suoi osservatori mandati in loco a prelevarle, prima di assumere qualsiasi decisione in merito. Ma anche qui la questione è controversa, dalle analisi dei campioni prelevati sul terreno siriano si potrà accertate se le armi chimiche siano state o no impiegate, ma non da chi.

Una corrente di pensiero attribuisce ai ribelli l’uso delle armi chimiche, facendo un semplice ragionamento. Già all’inizio della rivolta popolare siriana, Barak Obama disse: “Noi non intendiamo intervenire in Siria tranne che non vengano utilizzate da Assad armi chimiche contro il suo popolo in rivolta”. Fino ad allora di armi chimiche non s’era vista, né sentita alcuna eco. A seguito di questo monito sono venute fuori le armi chimiche. Sarà una coincidenza, ma il dubbio che l’uso delle armi chimiche sia stato pilotato è forte.

Da queste semplici e brevi considerazioni nasce la cautela dei partner degli Usa nelle diverse operazioni militari sparse per il mondo e la loro presa di distanza dai propositi bellici statunitensi.

Fin qui l’andamento diplomatico internazionale sulla vicenda siriana. E’ probabile che esso troverà ampio spazio in occasione del G 20 che si terrà a giorni a San Pietroburgo, anfitrione Vladimir Putin, il quale continua a ripetere che la questione siriana non è all’ordine del giorno, anzi sottolinea che la conferenza ha un altro tema squisitamente economico e riguarda le condizioni per la diffusione della ripresa a tutto il mondo e la creazione, da parte dei Paesi del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – di riserve comuni di valute contro la fluttuazione dei cambi determinata dalle grandi agenzie di rating, ‘operazini’, non sempre elimpide (o forse mai limpide), pilotate dai grandi centri finanziari.

Il fatto stesso che la questione siriana venga dirottata in sede di G20 piuttosto che nella sede naturale dell’Onu sta a testimoniare che ormai l’Organizzazione delle Nazioni Unite non serve più a nulla e che si è ridotta ad una foglia di fico che non è più capace di coprire neppure le più semplici vergogne. Ma di questo scriveremo nei prossimi giorni più diffusamente.

Intanto, seppure per brevi cenni, vediamo di capire da dove nasce la smania permanente degli Stati Uniti di volere intervenire sempre, comunque e dovunque si verifichi un focolaio di agitazione popolare contro i propri governanti o regimi.

Gli Stati Uniti d’America sono nati dall’epopea della Colt e del Winchester. Le armi sono nel ‘Dna’ della grande potenza americana. Ed è l’industria delle armi che determina lo sviluppo economico e civile degli Usa. La diffusione delle armi in America è come qui da noi è diffusa la merce di largo consumo nelle bancarelle dei mercatini rionali. Al punto che un qualsiasi ragazzo, negli Stati Uniti, ne può acquistare una qualsiasi e magari il giorno dopo fare una strage nella sua scuola massacrando compagni e professori, così, per divertimento.

Questa è la cultura popolare vigente negli Stati Uniti d’America. E quand’anche qualcuno volesse regolamentare la vendita e l’uso delle armi le grandi lobbies lo impediscono con ogni mezzo.

Altro fenomeno che caratterizza la politica estera degli Stati Uniti è quella che vede l’installazione di basi militari sul territorio di qualsivoglia nazione abbia la ventura di stabilire con essi patti di amicizia. In forza di queste esigenze di sviluppo della loro industria degli armamenti, i loro governi sono costretti ad intervenire ovunque si aprano spiragli per il loro mercato delle armi, quando addirittura non sono loro stessi a sollecitare l’avvio di guerre locali per favorire con queste operazioni di marketing la fornitura di armi, anche chimiche; vedasi a questo proposito la guerra Iraq-Iran, condotta da Saddam Hussein per loro conto.

O, per venire ad episodi più vicini ai nostri giorni, la guerra contro la Serbia per l’indipendenza del Kosovo. Nel cui piccolissimo territorio non è mancata l’installazione di una base militare statunitense allorquando al governo del novello Stato indipendente si sono insediati gli ex mercenari dell’Uck, l’esercito mercenario sostenuto dalla Cia e finanziato mediante la mafia albanese.

Questi metodi in Sicilia li conosciamo abbastanza per averli vissuti direttamente, quindi per noi non rappresentano alcuna novità. Piuttosto dobbiamo constatare che il lupo perde il pelo ma non il vizio.


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