Peppino Impastato, il ricordo di un amico 40 anni dopo «A Cinisi dava fastidio da vivo e ne dà ancora da morto»

«Era uno che non poteva sopportare le cose storte. Ha dato tutto, per un’idea, per la dignità, per la bellezza. Eppure, anche a 40 anni dalla sua morte, viene ancora bistrattato». Mentre parla gli occhi gli si riempiono di lacrime, ma le trattiene, non vuole interrompere quel ricordo. Quello che Faro Sclafani regala a MeridioNews è un racconto inedito e personale di quello che fu un compagno di militanza e, prima di tutto, un grande amico, Peppino Impastato. «Era una persona fuori dal comune, un giovane che voleva cambiare le cose in questo paese, uno che ci credeva. Aggregava gli ultimi ma anche chi aveva un minimo di sensibilità a quello che succedeva». E i ricordi dell’amico si legano inevitabilmente a quelli di Cinisi, a com’era e a come è diventata. Alle lotte, ai cambiamenti, alla gente. «Il paese è stato letteralmente smembrato per costruire l’aeroporto di Punta Raisi, che ci ha tagliato tutta la costa. Qui un tempo c’erano terreni che producevano ortaggi, pozzi e asinelli che giravano – racconta -. Questo aeroporto per noi è stato una tragedia, anche se non avevamo terreni era comunque come se ci avessero tagliato la faccia».

Un momento di transizione per il paese, vissuto dai più sensibili come un’occasione per aggregarsi e sollevare le proprie voci di protesta insieme, per chi aveva in gioco invece degli interessi personali come l’ennesima scusa per speculare. «Peppino Impastato dà fastidio a Cinisi, sia da vivo che da morto – aggiunge Faro, senza troppi giri di parole -. Ancora oggi che arrivano spesso cinque-sei pullman al giorno di turisti per visitare Casa Memoria, ma anche il paese, e quindi spendono dei soldi qui tra bar e acquisti vari, molta gente si lamenta ed è infastidita che dopo 40 anni se ne parli ancora, le espressioni sui volti sembrano dire tutte “ah, chi camurria!”». Anche se, di contro, è convinto che al suo amico oggi questa sorta di turismo creato attorno al suo nome non piacerebbe granché. Dal ’78 però non si può dire che qualcosa non sia cambiato, anzi. «È cambiato molto qui, non abbiamo più l’oppressione mafiosa che avevamo prima, non ci sono più certi personaggi, però la mentalità di Cinisi resta la stessa. Io sono di Cinisi, sono nato e cresciuto qui e ancora oggi vivo e lavoro qui, ma mi sono sempre sentito un estraneo rispetto a questo paese, una minoranza».

                  

Malgrado l’amarezza che non nasconde quando parla di Cinisi e dei suoi concittadini, quelli di ieri e di oggi, Faro, cinisaro doc, è qui da sempre. Anche nonostante la delusione per quei cambiamenti che non sono mai arrivati. «I boss importanti ormai sono tutti morti, ma la mentalità mafiosa continua a regnare nella quotidianità, lo vedo nell’atteggiamento di chi pretende anziché domandare o di chi vuole sempre venire prima degli altri, e questo fa male considerando quello che abbiamo avuto e che abbiamo vissuto qui, considerando che da quel ’78 sono passati 40 anni. Non c’è la grande partecipazione che speravo di vedere oggi – dice -. Abbiamo avuto Peppino Impastato, e già solo per questo Cinisi avrebbe dovuto cambiare di più, ma non è stato così». Ma quasi fosse una sorta di resistenza personale, lui qui ci rimane malgrado tutto e tutti. «Resisto, sì, ma col fegato che si arrovella. L’importante è non compromettersi mai, non scendere a patti. Ma a giovani di oggi mancano il coraggio e le occasioni per fare aggregazione. Non stanno insieme, non protestano per niente. Ci sono solo episodi sporadici, fuochi di paglia. Mentre mi ricordo di un Peppino che era un vulcano di idee e che sapeva coinvolgere tutti».

Lui quel 9 maggio 1978 se lo ricorda ancora, lo sa a memoria. «Non si può dimenticare, non importa che siano ormai 40 anni. Quel giorno ho perso un amico – fa una pausa, piange, ma è solo un attimo -. Ero militare a Palermo. Quando ho sentito la notizia per me è stato un dramma, mi ricordo che subito dopo sentii anche di Aldo Moro. Una pagina buia. Mi fa piacere che non ci sia oggi un angolo di mondo che non conosca il suo nome, la sua storia, quello che è stato. C’è gente che viene dal Canada, dagli Stati Uniti, dalla Svezia a visitare la casa, per chiedere di lui, però c’è anche il lato brutto di Cinisi, quello fatto dalla gente che lo denigra ancora, che continua a definirlo, quando va bene, uno che rompeva le scatole, per dirla pulita». E quando va meno male, invece, di lui qualcuno dice di non sapere addirittura nulla e a sentire quel nome scuotono la testa, si girano e vanno via in fretta. «Questo esiste ancora a Cinisi, purtroppo. All’ufficio postale non sapevano nemmeno che era uscito un francobollo per i 40 anni dall’omicidio – racconta -. Un dipendente mi ha detto che non ne sapeva niente, un altro che dovevano ancora arrivare e un terzo che erano già finiti tutti».

Uno scomodo, Peppino Impastato, oggi come ieri, forse. Uno che dava fastidio perché, a sentire i ricordi dell’amico e compagno, «rompeva le regole e gli interessi, anche se minimi. Lui e il suo gruppo disturbavano, indifferentemente a destra e a sinistra. Persino il partito comunista dell’epoca ne aveva preso le distanze – racconta ancora -. Pochi giorni prima che lui morisse, sono venuti qui due grossi dirigenti del partito a fare comizi, ma non contro i mafiosi ma contro il gruppo extraparlamentare di Cinisi secondo loro fatto da figli di papà che giocavano a fare la rivoluzione e che davano fastidio. Lo hanno isolato, anzi, a tutti noi, ci hanno isolato moltissimo. E oggi non è molto diverso da allora. Siamo circa 12mila abitanti, ma almeno a diecimila ancora non piace parlare di Peppino Impastato».

Silvia Buffa

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