Pensando (forse) ai 150 anni di unità (o quasi)

Ci è sembrato più che mai azzeccata parafrasare la prima parte del titolo dello spettacolo “Dell’elmo di Scipio” andato in scena al teatro Biondo di Palermo (sala ‘Strehler) per chiosarne intorno, dando il nostro modesto contributo di divulgazione sulla messinscena garbata e di buona fattura artigianale che, in effetti – tolto il dittico La voce umana e Il fantasma di Marsiglia di Jean Cocteau, andato in scena il 16 novembre scorso al Teatro Bellini per l’interpretazione di Galatea Ranzi e la regia di Marco Andriolo – è, in realtà, con tutto il rispetto per la professionalità della stessa primadonna del “Biondo”, il vero e proprio spettacolo d’inaugurazione di questa stagione all’insegna del 150º dell’Unità d’Italia, travagliata e “in trincea”.
Il titolo intero della pièce aggiunge al verso di Goffredo Mameli: “Donne, canzoni e bombe”; l’autore del testo è un meglio identificato Kris (maschile) Celsi Gallo del quale “Mister Internet” non dà nessuna indicazione e quindi ci accontentiamo di riportare quello che ha scritto il critico del più antico organo di stampa di Palermo, enfatizzando sull’incontro e cioè, che il tutto sia nato dal fatto che Pietro Carriglio, viaggiando per “terre assai luntane”, in treno, ha avuto modo di conversare a lungo con lo sconosciuto autore che vive in un castello vicino a Stoccolma (viene da pensare, scusate il volo pindarico, alla pièce teatrale di Françoise Sagan Chateau en Suède, dal quale, poi, Roger Vadim nel ’63 trasse l’omonimo film), particolare figura di scrittore, cultore della storia della nostra “annessione” e collezionista di cimeli e documenti.
Il testo confezionato per l’occasione non è, per fortuna, un “Alleluja” della nostra Unità (saremmo poi curiosi di sapere quale unità, oggi, rimane) e parla di due personaggi femminili, degne del massimo rispetto, interpretate da Eva Drammis, la giovane attrice torinese, da anni in carico allo “Stabile” e pertanto naturalizzata palermitana.
La prima figura femminile è quella della “povera” Enrichetta Caracciolo dei principi di Fiorino, figlia della nobile palermitana Teresa Cutelli, che costrinse la propria figlia, come si usava al tempo, ad entrare in monastero, con tutte le mortificazioni della carne e dello spirito che accadevano in quel “pio” luogo, rese ancora più cocenti in quelle creature che vi erano costrette, solo per comando familiare. Enrichetta soccombe fino al giorno in cui l’astro libertario di Giuseppe Garibaldi: “Da Rio de Janeiro a Quarto / dal Mar Ligure al Tirreno / al Mediterraneo / di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno; / scoppiò dalla Sicilia al Calabro-campano / dall’uno all’altro mar.”, inganna tutti – lui che nella prefazione alle sue “Memorie”, aveva scritto: “[…] Coscienza d’aver cercato il bene sempre, per me e per i miei simili. E se ho fatto il male qualche volta, certo lo feci involontariamente. Odiatore della tirannide e della menzogna, col profondo convincimento esser con esse l’origine principale dei mali e della corruzione del genere umano. […]”, con buona pace del Presidente Giovanni Spadolini e dell’onorevole Bettino Craxi (che di “garibaldinismo” furono due attenti collezionisti)  – e s’impossessa dell’opulento Regno delle Due Sicilie. E Enrichetta, come tante donne del Sud, a rischio della propria vita, collabora con ardore per la nascita di una nuova società, basata – almeno – sul concetto di libertà.
La seconda figura è quella di Marie Sophie Amalie von Wittelsbach, una degli otto figli del duca Massimiliano Giuseppe e della principessa Ludovica di Baviera, sorella minore di Elisabetta, più conosciuta come la principessa Sissi, moglie di Francesco II di Borbone, ultimo re delle “Due Sicilie”.
Marie Sophie Amalie, napolinizzata in Sofia, fu quella che oggi si definirebbe “una donna con le palle”, perché a diciassette anni venne promessa in sposa al giovane erede al trono, all’epoca, duca di Calabria, che sposerà per procura l’8 gennaio 1859. Si conosceranno, solo, il 1º febbraio dello stesso anno, a Bari, e il 7 marzo partiranno, finalmente, per Napoli. “Alta, slanciata, dotata di bellissimi occhi di color azzurro-cupo e di una magnifica capigliatura castana; Maria Sofia aveva un portamento nobile ed insieme maniere molto graziose.”
Non ebbe vita facile vicino al marito, e un marito timido, pervaso da fanatismo religioso e ammalato di fimosi; eppure gli stette accanto fino alla fine.
Divenne particolarmente popolare durante l’assedio di Gaeta, dove la corte borbonica si era rifugiata il 6 settembre del ’60 per far fronte al IV corpo d’armata piemontese, comandato dal generale Enrico Cialdini, dotato dei tremendi cannoni a canna rigata Cavalli.
D’Annunzio la soprannominò: “severa piccola aquila bavarese” e Marcel Proust l’ha descritta come una: “regina soldato sui bastioni di Gaeta“, perché cercò, in tutti i modi, di tenere alto il morale dei soldati, strenui difensori, distribuendo loro medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate. Indossò, dopo, un costume calabrese di taglio maschile affinché pure la popolazione civile la sentisse più vicina, come una di loro e partecipò personalmente ai combattimenti, incitando alla lotta i soldati e recandosi, più volte, in visita ai feriti negli ospedali.
Quando, poi, a Gaeta la situazione precipitò a causa della scarsità del cibo e  si diffuse una epidemia di tifo petecchiale che iniziò a mietere vittime sia tra i militari che tra i civili, vittime che si andavano ad aggiungere a quelle dei bombardamenti piemontesi, il marito, Francesco II, la invitò a lasciare la roccaforte ma la regina fu irremovibile nella sua decisione di restare accanto al popolo. Così, infatti, Francesco II in una lettera diretta a Napoleone III, così scrisse: “Ho fatto ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me, ma sono stato vinto dalle tenere sue preghiere, dalle generose sue risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali la cura dei feriti e degli ammalati; da questa sera Gaeta conta una suora di carità in più.” In altre circostanze che la tentavano di tenere lontano dalla prima linea, ebbe a dire: “Piuttosto che stare qui, amerei morire negli Abruzzi in mezzo a quei bravi combattenti.”
Con la caduta del regno, i reali coniugi andarono, in esilio, a Roma, ospitati al Quirinale, proprietà vaticana. Lì Re Francesco istituì il governo in esilio a Roma, che godette del riconoscimento diplomatico da parte degli stati europei per alcuni anni come il governo legittimo del Regno delle Due Sicilie e lei, Sofia, girò le corti europee per chiedere quella giustizia che, ahimè, non ottenne mai.
A seguito della “breccia di Porta Pia” si trasferirono  in Baviera. Francesco II mori nel 1894. Maria Sofia trascorse molto tempo a Monaco, e poi si trasferì a Parigi, dove viveva in una villetta acquistata dal sovrano nel sobborgo di Saint Mandé, nella quale presiedeva, ancora, in qualche modo ad una informale corte borbonica in esilio. Non smise di sperare di riconquistare il regno, arrivando persino ad avere contatti con il mondo anarchico e insurrezionale, per questo fu soprannominata impropriamente “Regina degli anarchici”. Coltivava la speranza di utilizzarli in attentati contro i regnanti sabaudi, allo scopo di provocare la destabilizzazione del neo nato regno d’Italia.
L’unico svago che si concedeva era la passione per i cavalli e frequentava le gare in diverse località europee, come Londra, dove si appassionò, anche, alla caccia alla volpe. Durante la ”Grande guerra”, Sofia si era schierata attivamente a favore dell’impero asburgico; alcune fonti sostenevano che lei fosse coinvolta in atti di sabotaggio e di spionaggio contro l’Italia, nella speranza che una sconfitta italiana avrebbe disintegrato la Nazione e così sarebbe stato ripristinato il vecchio regno delle Due Sicilie. Ciononostante aveva l’abitudine di visitare i campi di prigionieri italiani per portare loro dei libri e quel poco di cibo che si poteva trovare nell’affamata Germania. I soldati non riuscivano a capire chi fosse quell’anziana signora che parlava la loro lingua con uno strano accento tedesco-napoletano e che chiedeva notizie soprattutto dei paesi del Sud.
Ha scritto Arrigo Petacco, in “La Regina del Sud”: “Fra quei soldati laceri ed affamati, lei cerca i suoi napoletani. Distribuisce, come a Gaeta, bombon e sigari”. Si spense a Monaco di Baviera nel 1925.
Fin qui la storia. Il testo teatrale si ferma a dopo la resa e la partenza per l’esilio e la battuta finale recita: ”I napoletani  e i siciliani che ci hanno tradito se ne pentiranno”. Più che una profezia, come sostiene il programma di sala, ci sembra una amara considerazione dettata dal momento di sconforto perché è provato che il popolo amava i sovrani e in particolar modo la propria regina, come è pur vero che i meridionali non hanno tradito, ma sono stati traditi e truffati e pesantemente ridotti sul lastrico morale ed economico.
Il testo di Kris Celsi Gallo è per lo più formato da monologhi e qui è emersa la navigata esperienza del metteur en scene, Salvo Tessitore, nostra vecchia conoscenza che da apprezzato “sarto per signora”, dal momento che i ruoli vertono su due donne, ha operato un buon lavoro di taglio, cucito, imbottimento e rivestimento delle parti con canti, canzoni, arie e musiche del repertorio popolare e classico. Così Tessitore, ha miscelato, senza scivolare in errori grossolani, la siciliana “La palummedda bianca” con “La nova gelosia” e “Palomma ‘e notte”, napoletane veraci; su bande ha fatto sentire il “Gloria Patri” e il “Gloria” di Vivaldi; ancora “Lacrimosa”, un’area da “La Traviata” e un’altra dal “Nabucco”, lo “Stabat Mater” di Pergolesi; non poteva mancare il “Canto dei Sanfedisti” e l’”Inno del Regno delle Due Sicilie” di Paisiello, che culminavano con “Fratelli d’Italia”. Una curiosità degna di nota che impreziosisce il lavoro di ricerca di Tessitore è l’inserimento di “Noi facemmo la bandiera”, il canto scritto da Garinei e Giovannini e musicato da Modugno per la commedia musicale “Rinaldo in campo” che inaugurò a Torino, le manifestazioni celebrative per i cento anni dell’Unità nazionale e fu un successo che durò per anni.
Portare in scena le due storie di donne, diverse tra loro, ma indissolubilmente legate  dalla solitudine e sofferenza è stato possibile grazie alla professionalità, bravura e duttilità delle tre interpreti, ognuno per la propria parte: l’attrice Eva Drammis, il soprano Jennifer Schittino e, dulcis in fundo, l’appassionata fisarmonicista Carmela Stefano, titolare dell’omonima cattedra presso il nostro Conservatorio.
Adeguati e soddisfacenti i costumi di Mariella Gennarino; sapienti le luci di Nino Annaloro. Spettacolo da vedere alla Sala Strehler, finalmente in esercizio, fino al 18 dicembre prossimo.

 

Lino Piscopo

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