Il cancelletto di via Marconi 107, a Pedara, è sbarrato. I Siciliani giovani, Arci, Ultreya e Asaec, le associazioni che hanno presentato richiesta, attendono il proprio turno per procedere al sopralluogo di tre immobili confiscati alla mafia. Affacciata alla finestra c’è una coppia di curiosi intenti a osservare la gente ferma davanti all’ingresso del complesso residenziale. A fare la spola tra gli appartamenti e l’ingresso sono la coadiutrice incaricata dall’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati Maria La Raffa e un suo delegato. Dei tre immobili contigui che verranno affidati alla collettività dopo la selezione dei progetti, solo uno è libero. Gli altri, riuniti in uno solo a seguito della realizzazione di un’opera di ristrutturazione, sono occupati da una donna e dal figlio.
Già a ottobre, ciò aveva impedito il sopralluogo e giovedì ha spinto qualcuno a non varcare la soglia dell’abitazione occupata. «Eravamo già venuti – spiega a MeridioNews Matteo Iannitti de I Siciliani Giovani – ma l’ultima volta siamo riusciti a entrare in uno solo dei tre immobili, perché gli altri risultavano occupati». A complicare le cose una paventata sparizione delle chiavi dell’edificio che, per qualche giorno, avrebbe contribuito ulteriormente a rendere impossibile la visita. «Adesso le chiavi sono spuntate come per magia», commenta a MeridioNews Annalisa Schillaci, presidente di Ultreya, l’associazione pedarese capofila di altri quattro enti locali. A complicare le cose ci sono le carte. La planimetria e la visura catastale non risultano ancora aggiornate rispetto alla concreta evoluzione degli immobili, come per i due che adesso formano un unico bene e la nuova assegnazione dei numeri civici non corrispondente a quella indicata negli atti.
In mezzo c’è una storia che risale a più di trent’anni fa e rievoca i tempi in cui l’abusivismo edilizio e la cementificazione incontrollata la facevano da padroni. Nel caso in questione, la vicenda segna la fine di una storia che comincia nel 1995 quando gli immobili vengono registrati al catasto a nome della Rizzo Costruzioni srl, ditta dell’imprenditore Carmelo Rizzo, legato alla mafia e morto ammazzato nel 1997. Lo stesso che vent’anni prima balzava agli onori delle cronache nel noto Caso Catania, perché con la Di Stefano Costruzioni e altre aziende sempre da lui gestite, ha contribuito ad accrescere l’impero edilizio dei Laudani a San Giovanni La Punta. Lo stesso che costruì una villa finita al centro delle polemiche perché acquistata dall’allora procuratore Giuseppe Gennaro, ex capo dell’associazione nazionale magistrati (Anm), scomparso nel 2015. L’uomo, sempre Rizzo, a cui il gruppo appartenente ai Santapaola-Ercolano aveva affidato la gestione degli affari immobiliari nel territorio pedemontano. «Addirittura – sottolinea Iannitti – sembra che l’immobile vuoto sia stato adibito a ufficio della ditta perché abbiamo trovato i faldoni della Rizzo Costruzioni». La stessa azienda che ha venduto la casa alla famiglia che risiede in uno degli immobili oggetto di confisca e la cui sorte, per chi come loro ha siglato un compromesso di vendita, è appesa a un filo.
«Queste persone – spiega Annalisa Schillaci – sono in possesso di un titolo legittimo che però è stato seguito da un provvedimento di confisca. Che gli occupanti debbano andare via è chiaro – continua – ma è anche vero che, fino a quando i beni non verranno assegnati, è inutile buttarli fuori sotto Natale e in piena pandemia». Stando alla ricostruzione di Schillaci «anche se lo sgombero avrebbe dovuto essere eseguito già molto tempo fa, non se ne parlerà prima di febbraio».
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