Pasquetta, l’arrustuta vista da una catanese «Possiamo offrire un po’ di mangiaebevi?»

Il sole, anche se è marzo, si mostra benevolo e ammiccante con i palermitani. Che poi Palermo col sole è bellissima, il bianco sembra più bianco, il mare sbrilluccica come un cielo montano e pare un invito celeste alla felicità. Noi che veniamo dalla provincia di Catania, che siamo abituati al nero della lava, al grigio delle balate e dei palazzi, un po’ glielo invidiamo a Palermo questo bianco, questo splendore di sole. E il bianco e l’oro si rifrangono persino nelle sculture di marzapane del Serpotta o nella galassia di tessere dorate dei mosaici della Cappella Palatina. Un raggio di sole appena tiepido e i palermitani si precipitano all’aperto: il sole e il mare ce li hanno protocollati nel dna. Il giorno di pasquetta le spiagge e le aree verdi sono affollatissime come ad agosto, in un coacervo di corpi appiccicati l’uno all’altro, in un’intimità imbarazzante. In famiglia decidiamo di organizzare il picnic di pasquetta: non vogliamo privarci neanche noi di questo sole così invitante. Preparo qualche panino, un po’ di frutta, un paio di bottiglie d’acqua e il picnic è bello e organizzato. La meta è il bosco di Ficuzza

Lungo il tragitto noto con preoccupazione che il tempo pare peggiorato. Una fitta nebbia incombe sulla città e si apre cupa anche sulla campagna. Che peccato! Decidiamo quasi di tornare a casa quando noto un uomo in tenuta semiadamitica davanti all’ingresso della sua abitazione intento ad accendere un barbecue. Guardo meglio e vedo la scena ripetersi all’infinito. In ogni villino, casa, rimessa, garage, scoppietta allegro il fuoco di un barbecue attorniato da virili ed esperti maschi palermitani. Riesco persino a vedere costatine di agnello, ruote di salsiccia spesse come copertoni di camion e intere teglie di carciofi pronti per essere sacrificati sul barbecue della pasquetta. Ecco la causa della nebbia! Palermo tutta è un enorme barbecue e in tutti i villini, prati verdi o aiuole è in corso il sacro rito dell’arrustuta. Riusciamo a raggiungere il bosco di Ficuzza e a trovare, zigzagando fra barbecue, sgabelli, teglie e contenitori, un fazzoletto di prato libero dal quale, ci sembra di intuire fra i fumi d’arrosto, la presenza non lontana di qualche albero. Ci sediamo tutti su un coperta ripiegata in un fazzoletto e da mamma premurosa distribuisco i miei panini alla famiglia augurando a tutti buon pranzo. 

Non ho ancora addentato il mio panino, quando vedo proprio vicino alla mia postazione una muta e veloce processione di donne con le braccia cariche di vassoi. Sembrano antiche sacerdotesse pronte per un rito sacrificale. Montano con le braccia nerborute, dopo averlo estratto da una minuscola cassetta, un tavolo imperiale con almeno 15 posti a sedere. Sciorinano una colorata tovaglia e con una velocità che farebbe impallidire l’addetto al cambio ruote del Gran Prix di Formula1, ricoprono la tavola con decine di vassoi. Guardo ammirata. Nei vassoi troneggiano cardi e carciofi fritti, caponata, forme di formaggio, sformati di anelletti, pasta con le sarde, spiedini, torri di cotolette dorate, patate al forno, insalata, parmigiana, macedonia, cassate e cannoli. Un donnone, la più anziana, la sacerdotessa capo, fa un breve richiamo dal suono incomprensibile ed ecco che dal nulla appare una famiglia completa di nonni e lattanti. Afferrano forchettate di cotolette, si lanciano con la mano destra piatti di pasta da un lato all’altro della tavola come giocolieri, brandendo uno spiedino con la sinistra: «Passami la salsiccia, tutta la ruota!» chiede uno. «Mi vuoi lasciare digiuno? Te la devi mangiare tutta tu?» risponde ironico un altro mentre addenta una coscia di pollo. «Al nonno la frittata di cipolle l’avete data, ah?» chiede una donna arcigna mentre riempie la bocca di un bambino grassoccio di fette di salame. «Totò, mangia, che poi ti finisci le sei uova di cioccolato che sono rimaste da ieri!» Promette al bambino che non pare abbia però problemi di appetito.

Guardo il triste panino del mio silenzioso picnic: la foglia di lattuga appare gialla e avvizzita e la fettina di prosciutto si è ritirata dentro la mollica. I vicini che non sembrano ancora sazi armeggiano attorno ad un arnese. È un barbecue portatile, enorme e multiaccessoriato. «Non dobbiamo mangiare oggi? Che ci dobbiamo fare solo con l’antipasto? I carciofi non si devono arrostire? Un po’di verdura fa bene! Pino, le hai portate le stigghiole da fare con il capretto? I carciofi, mangiati da soli, pesanti sono!», chiede la sacerdotessa anziana richiamando i maschi della famiglia al loro dovere. Gli uomini (il rito dell’arrustuta pare essere di esclusivo appannaggio maschile) brandiscono spiedi e forchettoni e riempiono le griglie di ogni tipo di carne e di montagne di carciofi acuminati.

Mi vergogno. Mangio il panino facendomi schermo con una mano, con aria guardinga, sperando che nessuno mi veda e sorrido alla mia famiglia che pare ipnotizzata dalla allegra tavolata. Si sa che i palermitani hanno, oltre allo stomaco, anche il cuore grande. Un paio di donnoni si avvicinano con un vassoio: «Li possiamo offrire un po’ di mangiaebevi a queste bambine? E anche due carciofi, se no che festa è?» mi chiedono scandendo una lingua il più vicino possibile all’italiano, comprendendo che sono straniera e assolutamente impreparata alla gestione di un vero picnic. E così, felici, partecipiamo anche noi al sacro rito della pasquetta palermitana. 


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