Per anni, in un piano terra nel centro di Niscemi, gli attivisti No Muos hanno organizzato un doposcuola per i bambini più sfortunati della città. Oggi non c'è più. E attorno restano macerie. Pubblichiamo la riflessione di uno dei promotori, Fabio D'Alessandro
Parlateci di Bibbiano, ma sotto casa il quartiere è allo sbando Lettera da Niscemi, dove i bimbi diventano adulti troppo presto
Cosa abbiamo lasciato?
Scrivo solo ora queste quattro righe perché ho sentito l’esigenza di mettere in fila i pensieri, i cocci di un’esperienza straordinaria che però è finita nel peggiore dei modi. Molti di voi sapranno che quando il Movimento No Muos aveva una sede in centro a Niscemi, una delle attività che più ci ha occupato è stato il doposcuola per i bambini del quartiere.
Un’esperienza che ci ha profondamente segnati per l’umanità e la gioia che è riuscita a trasmetterci. La sede quasi giornalmente veniva invasa da bambini che dai freddi rapporti degli assistenti sociali potevano essere qualificati come «difficili» o «problematici».
E problematici forse lo erano davvero: rumeni, sinti, figli di sex workers, gli scarti della brava popolazione italica. Il doposcuola è stata l’unica esperienza che li ha fatti incontrare, scontrare, giocare insieme. Gli ha fatto condividere gli spazi e le cose in un’età in cui il senso del possesso è fortissimo: come dimenticare i «colori comunardi», senza mio o tuo, ma sempre a disposizione di tutti? Le merendine a base di marmellate fatte in casa? I litigi per chi fosse più brav* in geografia? La perfetta definizione di sottoproletariato di fatto: schifati dai penultimi perché bellissimi, sporchi e cattivi.
Quell’esperienza durò poco, o comunque meno di quanto avremmo voluto. Non era facile gestire decine di bambini in pochi e quasi tutti gli appelli alla «città buona» caddero nel vuoto: nessuno voleva averci a che fare con questi piccoli derelitti che «tanto sappiamo come finiranno».
«Tanto sappiamo come finiranno» era una di quelle frasi che più mi facevano incazzare: l’ascensore sociale per loro non era nemmeno ipotizzabile: erano destinati ad essere gli ultimi, i delinquenti, le prostitute.
Eppure quando qualche maestra veniva a complimentarsi per i miglioramenti dei bambini per un attimo ci credevamo che c’era ancora speranza. Non tanto per i voti, quanto per l’interesse con cui cominciavano a guardare il mondo che li circondava. «Ho preso 8 in storia». Ti guardavano come se avessero valicato un confine prima inimmaginabile.
Certo, magari sto romanzando un po’, non tutto era rose e fiori. Ogni tanto i genitori li parcheggiavano per ore in sede perché «avevano clienti», erano poco partecipi della vita della sede e stronzate varie.
Capita.
Quello che non dovrebbe mai capitare è che un’esperienza così si traduca in tragedia. Quello che è esattamente successo. Dopo la chiusura della sede, rimase un buon rapporto con i bambini ma non poteva essere la stessa cosa. Grandi feste per strada quando ci incontravamo, ma era evidente che erano ripiombati nella vita precedente.
Due settimane fa sono tornato giù a Niscemi dopo tanto tempo e mai mi sarei aspettato di trovare un simile spettacolo davanti a me.
C’è Maria che ha abbandonato la scuola, ora è incinta ma non si sa esattamente di chi dato che ha intrapreso il lavoro della madre: la prostituzione. Per quanto ne sappiamo potrebbe essere qualche vecchio di merda. Nonostante la forza pubblica conoscesse il suo caso molto bene, non è mai intervenuto nessuno.
C’è la dolcissima Carla che a 13 fottutissimi anni ha cominciato a prostituirsi e questo ha cambiato per sempre il suo sguardo. Avevo lasciato lo sguardo di una bambina e ho ritrovato occhi ammiccanti che hanno visto chissà cosa.
C’è Simone, quarto di undici fratelli di origine rumena, che ha deciso di farla finita di vedere i suoi sogni sfumare costantemente. Voleva fare il giornalista Simone, mi chiedeva di mandargli gli articoli che scrivevo perché a casa non c’erano giornali o internet. Si è impiccato, dimostrando al mondo che il coraggio non gli mancava.
C’è Marco, fratello di Maria ma da un altro padre/cliente. Di lui non si sa più nulla eppure prima la strada era la sua vera casa. A rubare era un vero professionista.
C’è Sabina. L’ho ritrovata con un braccio rotto e mi ha raccontato che adesso non voleva più «salire in piazza» perché si vergognava del gesso, non era più bella dopo aver avuto un incidente mentre era in auto con due trentenni.
C’è Monica, già all’epoca lei era la donna di casa. Aveva enormi difficoltà a socializzare e ora mi dicono si sia barricata in casa perché «in famiglia serve una mano». MI piacerebbe incontrarti di nuovo Monica, per sapere se il tuo inglese è migliorato.
C’è un mondo distrutto, un quartiere che vive allo sbando più totale. E i bambini sono la cartina al tornasole di quanto disagio possano covare le città di periferia. I nostri bambini – ammesso che possa chiamarli ancora bambini – erano solo una parte di quel sottobosco fitto e scuro.
There is a crack, a crack in everything
That’s how the light gets in
(Leonard Cohen)
C’è stato un tempo in cui noi siamo stati una piccola crepa, da lì passava tanta luce. Ma nessuno ha voluto vederla. Non gli organi preposti, tanto sappiamo come finiranno. E così sono finiti, a far parte della polvere sotto il tappeto. Che dramma.
*i nomi sono, ovviamente, di fantasia. Chi ha da intendere intenda.
EDIT
Se questi maledetti benpensanti avessero una dignità, smetterebbero di parlare a vanvera di cose lontane. Questo scritto doveva avere un’altra forma ma non ho saputo resistere all’impeto stamattina quando un benpensante del quartiere che abita a tre minuti dalla casa di un* dei ragazz*, ha pubblicato «PARLATECI DI BIBBIANO».
Ma di che cazzo ti devo parlare, coglione, se dietro la tua bella casa c’è una bomba sociale e tu mi inviti a parlare di quello che probabilmente nemmeno sai quando invece, ogni maledettissimo giorno, sotto il tuo naso accade qualcosa che non può essere tollerato.