La città vista con lo sguardo innamorato di un paesano «Non sono mai sazio, ogni vicolo mi svela un segreto»

Sono venuto a vivere nella città tutto porto nel secolo scorso. Se al mio arrivo in qualunque altra città universitaria sarei stato classificato come studente fuori sede, questo non è accaduto a Palermo. Non appena misi piede nella grande metropoli, mi bastò aprir bocca per sentirmi rivolgere una domanda. Passarono le settimane, e dopo i mesi, e anche se in base all’estrazione sociale del mio interlocutore le vocali con cui veniva pronunciato potessero essere più o meno aperte, o io venissi apostrofato come gio’ o cucì, il quesito che mi veniva posto rimaneva immutabile:

Ma sei di paese?

Ecco cos’ero per loro: un paesano. Paesano poteva voler dire sia proveniente da Gangi, paese di qualche centinaio di anime sulle Madonie, che da Catania, seconda città per grandezza dell’isola; ma per molti paesano poteva anche essere uno studente Erasmus spagnolo. Mi sembrava di capire che, più o meno, tutto quello che non era palermitano era paesano. Sarà il retaggio dell’essere stata capitale dell’impero, pensavo, ma forse non era del tutto vero. Tant’è che, dopo un primo periodo di disagio e uno successivo d’imbarazzo, iniziai ad apprezzare il ruolo che mi era stato assegnato. Riuscivo, infatti, a vedere la città in maniera diversa. Non avevo lo sguardo ubriaco di contraddizioni dei turisti, perché quelle contraddizioni le vivevo ogni giorno, né quello un po’ miope degli autoctoni, ormai assuefatto ai luoghi. Ogni quartiere, ogni vicolo, ogni pietra mi svelava un segreto, e mi accorgevo che non ne avevo mai abbastanza

Rimanevo accecato nelle giornate di sole davanti a piazza Pretoria; ho potuto scoprire chi fosse Giuseppe D’Alessi e la rivolta che portò il popolo di Palermo a essere sovrano per qualche giorno; ho capito perché al Capo le sedie volano e perché su un muro della chiesa della Gancia c’è una buca chiamata della salvezza; una sera d’inverno mi sono innamorato perdutamente sulla scalinata di palazzo Cutò, ed è stato bellissimo. 

Ho riso davanti a un’esibizione di Sandocan, ascoltato le mille vite di Girolamo Amico e letto le sfide di poesia vinte da Petru Fudduni. Ho saputo perché il mare era stato allontanato cento metri dalla città e che le frecce blu con la scritta Ricovero erano un tatuaggio indelebile degli orrori della guerra. Ho imparato molte cose da questa città, non sempre belle. Ho imparato, ad esempio, il significato del termine quartiarsi e quello di parlare a matula. Tante altre cose dovrò ancora scoprire e i miei occhi stranieri non sono ancora sazi.

Ho vissuto buona parte della mia vita a Palermo, o meglio nel suo centro storico, per alcuni periodi in maniera continuativa, altri ad intermittenza, in ogni caso tutte le volte che sono partito, sono sempre tornato tra questi vicoli, ritenendoli i luoghi a me più familiari, ancor più del mio paese d’origine. Ma potranno passare cento anni, e non sarò mai uno di zona. Puoi uscire dal paese, ma il paese non esce da te. Qui ti sgamano subito, non puoi bluffare. Forse i miei figli, se mai ne avrò e se in questa città nasceranno, potranno acquisire lo status, ma io no. A ogni modo, spero che anche loro potranno avere la fortuna d’ammirare la bellezza di questa città con lo sguardo avido di scoperta di un paesano.


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