La questura rigetta due volte la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno di K., che vive qui dal 2005, e ha due sentenze del Tar dalla sua parte, che imporrebbero il rilascio almeno di un documento temporaneo. «Mi stanno trasformando in un fantasma»
Palermo, città dell’accoglienza dai tempi dilatati «Residenza cancellata, tredici anni spariti così»
«Mi sento più a casa a Palermo, che nel mio Marocco. Anche se oggi questa città mi sembra quasi un carcere a cielo aperto». Lui è K., e qui ci vive da oltre tredici anni. È arrivato (regolarmente) quando ne aveva appena 14, nel 2005, per seguire il padre, arrivato in città da molto prima. Il figlio non c’ha messo molto a imitarlo, finendo anche lui per costruirsi una nuova vita tutta palermitana. È qui che studia, che inizia i primi lavori, che si innamora. «Una vita meravigliosa, in una città meravigliosa». Fatta eccezione per il recente (ennesimo) rigetto da parte della questura di Palermo della sua richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno. Vicenda che si trascina dal 2016. Anche se le cose iniziano a prendere una spiacevole piega già quattro anni prima. Quando nel 2012 la guardia di finanza durante un controllo alla sua attività trova alcune borse che reputa contraffatte. «Mi hanno detto che erano di marca, Prada, Gucci, Luis Vuitton, ma non avevano alcuna etichetta. Ho spiegato che le avevo comprate da un grossista in corso dei Mille, di andare a controllare. Non posso venderle? Va bene, me ne assumo la responsabilità. In fondo ho sempre avuto tutte le licenze necessarie, la partita Iva, sono iscritto alla Camera di commercio, se avessi voluto truffare non avrei certo fatto tutto questo», osserva.
Affronta, quindi, un processo, che non si risolve in suo favore. Ma K. ha imparato la lezione, e mette da parte l’attività di venditore, per iniziare a dedicarsi al volontariato presso diverse associazioni, intervallato dal lavoro di mediatore culturale all’Arci Porco Rosso a Ballarò e a quello di interprete in tribunale. La vita sembra prendere di nuovo una piega positiva, fino alla successiva battuta d’arresto, quella del 2016. «La questura diceva che non avevo un lavoro, che avevo queste condanne e quindi non mi rilasciavano il permesso rinnovato». Ma lui un lavoro in realtà ce l’ha e per quelle famose borse ha pagato, reato che ritiene comunque di poco conto rispetto a una decisione tanto drastica che può rivoltargli la vita. Perciò fa ricorso al Tar Sicilia, che gli dà ragione e rimanda indietro alla questura la richiesta di rinnovo del documento. Che però viene rigettata per la seconda volta. E K., di nuovo, si rivolge al tribunale amministrativo. «Il ricorrente – si legge nella richiesta inoltrata alla questura dal legale che rappresenta K. – ha in particolare dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato per non aver considerato la minor gravità dei reati commessi (…). Con motivi aggiunti depositati il 20 novembre 2018, il ricorrente ha impugnato l’ulteriore provvedimento del 28 luglio 2018, adottato a seguito del riesame ordinato dal Tar, lamentando l’omessa valutazione della pericolosità in concreto e l’errata considerazione del rapporto di lavoro come cessato».
«La tutela più idonea – infine – appare quella di ordinare alla questura di Palermo di rilasciare un permesso di soggiorno temporaneo sino alla decisione del presente ricorso (udienza fissata per dicembre 2019, ndr). Condanna la questura di Palermo e il ministero dell’Interno al pagamento delle spese della presente fase cautelare, che si liquidano in 750 euro». Una decisione che risale al 7 dicembre 2018. E alla quale, tuttavia, la questura non sembra essersi allineata. Da quella data ad oggi, infatti, K. non ha ancora ricevuto alcun documento temporaneo in attesa del nuovo riesame, nonostante anche le sollecitazioni inviate a mezzo pec dal suo avvocato. L’unico appuntamento preso è stato quello per le impronte digitali, ma a maggio. «Perciò giorni fa ho deciso di andare di persona in questura per chiedere, con lettere del mio legale e del mio datore di lavoro alla mano, di anticipare almeno l’appuntamento previsto fra tre mesi – racconta -. Hanno segnato il mio recapito, dicono che valuteranno. Vivo qui da moltissimi anni, so bene come funziona la burocrazia. Il problema è che così la mia vita è ferma, non posso fare nulla».
Contratto di lavoro, contratto di casa, residenza: tutto bloccato. «Non posso nemmeno andare a trovare mia madre, che è rimasta in Marocco. La cosa più grave non è aspettare fino a maggio, ma che all’anagrafe un mese fa mi hanno comunicato che la mia residenza è cancellata, 13 anni spariti così. Ho chiesto di aspettare i lunghissimi tempi della questura, mi hanno detto di tornare quando avrò il permesso per registrare una nuova iscrizione che partirà dal 2019. E gli altri anni vissuti qui? Cancellati così? Io volevo chiedere la cittadinanza». Richiesta che si può avanzare dopo un minimo di dieci anni di residenza in un paese. «Questi tempi dilatati mi stanno rendendo un clandestino. Tutto passa dal permesso di soggiorno, non posso fare o chiedere niente senza. Mi stanno dicendo di restare in maniera irregolare? – si chiede perplesso -. Spero in un’accelerazione dei tempi, ma al momento io resto un fantasma. Io sono una persona corretta, perché dovrei vivere così? Perché dovrei accollarmi un affitto in nero, un lavoro in nero? Io dovrei essere sotto la protezione del tribunale, nessuno mi ha mandato via, nessuno mi ritiene socialmente pericoloso, questi tempi sono inverosimili». A stupirsi insieme a lui c’è anche una sorella, che però vive a Genova e che, scaduto anche il suo permesso di soggiorno, ha potuto rinnovarlo nel giro di un mese.
«Io qua ho sempre dato molto, ho sempre pagato le tasse e continuo a farlo, con le mie azioni mi sono speso per questa città, questa mia dedizione civile non vale niente per i burocrati che decidono i tempi della mia vita? Ho dato il mio contributo, cosa ho avuto di rimando io da questa città? Come mi ha ripagato? – continua a chiedersi -. Io non sono arrivato clandestinamente, sono entrato qui legalmente per studiare. Sono sempre stato in regola. E io qui ci voglio vivere regolarmente. A volte mi sembra che a Palermo il mafioso è più rispettato della persona onesta. Sì, li mettono in galera, ma poi escono e ricominciano», dice amaro e provocatorio. Ma la lentezza burocratica palermitana, intanto, sta incidendo molto sulle decisioni future di K. «Penso che potrei andare via da qui, non posso vivere in una città in cui non ho garanzia dei diritti umani. È una città razzista? Non direi, però tra una Palermo non razzista ma inefficiente e una Milano magari razzista ma efficiente, dove posso avere un documento in 25 giorni, bé…sceglierei Milano». Che quella della questura palermitana sia, come ipotizza un amico di questo giovane, una «tattica per bloccare le persone e non dare loro alcun incentivo per restare? Praticamente, un allontanamento tramite una mala gestione permanente dell’ufficio».