Omicidio Pipitone, il marito e il figlio dopo la sentenza «Una vittoria non solo per Lia ma per tutte le donne»

Sono passati 35 anni da quando Lia Pipitone, donna indipendente e madre di un bambino di appena quattro anni venne uccisa in una sanitaria dell’Arenella simulando una rapina. In realtà si trattò di una vera e propria vendetta mafiosa. Nelle regole dell’associazione non era contemplata la sua voglia di emancipazione e soprattutto Lia aveva rotto ogni forma di legame con suo padre Nino, boss dell’Acquasanta, andando a vivere prima con la zia e poi cercando di costruirsi una famiglia con Gero Cordaro. 

Dopo vari vicissitudini processuali a luglio di quest’anno è arrivata la sentenza, condannati a 30 anni i boss Madonia e Galatolo. L’omicidio venne ideato, voluto è realizzato da Cosa nostra e con il benestare di un padre accondiscendente. Si è parlato del lungo iter processuale ma anche della figura di Lia in occasione del 35esimo anniversario che L’associazione Millecolori onlus, Centro antiviolenza Lia Pipitone, ParteciPAlermo e Gero Cordaro con il figlio Alessio hanno voluto realizzare ai Cantieri Culturali della Zisa. «Dopo il risultato di luglio abbiamo pensato di realizzare questa festa – sottolinea Gero Cordaro – marito di Lia. Ci tengo a sottolineare che non è solo la vittoria di Lia ma di tutte le donne». 

Una figura quella di Lia Pipitone, poco conosciuta ma che vuole consegnare un messaggio di coraggio per lottare contro ogni forma di violenza, non solo quella mafiosa. «Lia era una persona con un’ampia voglia di libertà – continua Cordaro – che aveva un grande sorriso, amava la musica insomma una persona che voleva esserci». Adesso sembra tutto semplice eppure per anni c’è stato il silenzio un primo processo iniziato nel 2002 finito con l’assoluzione di Nino Pipitone e che dopo il libro scritto dal giornalista di Repubblica, Palazzolo insieme alla determinazione di Alessio Cordaro, figlio di Lia, venne riaperto. «Diciamo che rapporti diretti con Nino Pipitone non ne avevo se non rapporti familiari, solo quando voleva vedere il nipote. Dal processo a questa sentenza di primo grado sono stati anni difficili- continua Gero – e ora la figura di Lia è stata riaccreditata. Vorrei ribadirlo non ho mai creduto ne alla storia della rapina ne a quella dell’adulterio. Tutto un depistaggio». Varie ipotesi e un silenzio quello di Gero per proteggere suo figlio contestualmente all’estrema voglia della ricerca per la verità. Questa portata avanti anche dall’azione del Pm, Francesco Del Bene e successivamente alle dichiarazioni dei pentiti.

«Nell’adolescenza mi avevano dato una versione – racconta Alessio Cordaro – poi papà mi consegnò un album con tutti gli articoli di giornali e ho iniziato avere dei dubbi in realtà in cuor nostro in tutto questo tempo sapevamo cosa era successo. Ritengo che oggi sia l’inizio di una battaglia. In questi anni sono stati lontano da Palermo, un pò per motivi familiari, un po’ per motivi professionali ma torno con piacere. Ho visto che questo risultato sta servendo a portare dei messaggi nelle scuole, alle donne ma credo a tutta la società». Al fianco della famiglia Cordaro per tutto l’iter processuale c’è stato l’avvocato Nino Caleca: «Per me è stata un’esperienza importante sia dal punto di vista professionale che umano- racconta Caleca- e spero che Lia diventi anche lei, da donna coraggiosa, il simbolo delle lotta alla mafia».


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