«Ha capito male». Lo ripete più volte, Antonino Siragusa, uno degli imputati per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, andando contro le recenti dichiarazioni entrate a processo, rese dal collaboratore di giustizia Francesco Paolo Lo Iacono, ascoltato alcune udienze fa. Rivelando non solo di essere a conoscenza del mandante dell’omicidio, a suo dire il reuccio di Porta Nuova Gregorio Di Giovanni, ma di aver anche sentito Siragusa parlare in carcere di alcuni dettagli del processo e dell’omicidio stesso. I due, infatti, sono stati per un certo tempo insieme nello stesso carcere a Velletri e nella stessa sezione. «Io l’ho sempre trattato troppo bene, ancora oggi mi fa pena, malgrado tutto quello che mi ha combinato», commenta Siragusa, riferendosi a Lo Iacono. I due si conoscono proprio lì. «Arrivava dal Pagliarelli – spiega l’imputato -. Aveva deciso di collaborare, ma dopo aveva cambiato idea perché la moglie aveva paura. Lui era molto agitato, proprio perché la moglie non voleva che lui collaborasse e gli aveva detto a colloquio che era stata minacciata, che fuori gli dicevano che erano spioni perché stava collaborando, quindi lui si è spaventato e ha chiesto di non collaborare più. E quindi da Pagliarelli lo hanno portato a Velletri».
«C’era tutta questa agitazione, lui voleva tornarsene a casa. Gli abbiamo tutti consigliato di parlare coi pm e di continuare con la sua scelta, io l’ho sollecitato a riprendere la collaborazione – spiega ancora l’imputato -. Gli ho detto che ormai questo passo lo aveva fatto e tornare indietro non serviva a niente. Gli ho detto di non fare il mio stesso errore, perché io non ho detto tutto subito e vedi come mi ritrovo? Lui piangeva un giorno sì e un giorno sempre, diceva che non ce la faceva a stare in carcere. La sezione è piccola, gli dicevo di mettersi all’aria con me, io mi facevo la corsa e a lui davo la radio da ascoltare, avevo il pensiero, temevo si facesse del male. Non era mai stato in carcere, era fragile, troppo debole. Ancora oggi mi fa pena malgrado quello che ha fatto», racconta ancora, rispetto al tipo di rapporto che ci sarebbe stato tra loro. «Io sono stato due anni in isolamento, non ho potuto parlare con nessuno. Arrivato a Velletri in un certo senso mi sfogavo, sia con le guardie che coi detenuti, di questa situazione, di collaborare anche e quando l’ho fatto la cosa si è rivolta contro di me. Ma uno quando dice la verità non si deve spaventare di niente».
Si sfoga, insomma, un po’ con tutti dentro quel carcere. La sezione, del resto è piccola e lì sarebbero solo in cinque più le guardie. «Ma sempre in generale – dice -, senza mai scendere nel particolare. Ripetevo che Cocco e Castronovo quella sera non c’erano, che a colpire è stato Tonino Abbate», tutti e tre anche loro imputati del processo. E nega di aver mai parlato nel dettaglio anche di Francesco Chiarello, il collaboratore le cui dichiarazioni hanno portato, insieme ad altro, al processo che si celebra oggi in corte d’assise. «Può essere capitato, ma per ribadire che lui sta dicendo cose che non esistono – spiega l’imputato -. Come quella di Cocco e Castronovo, appunto, che in realtà non c’erano e con questa cosa non c’entrano niente. Perché dovrei nasconderlo, se fosse così? Ergastolo o 30 anni non mi importa, io non ho più nessuno, non ho famiglia, non ho niente, pure se esco da qui posso andare a fare il barbone», si sfoga. Nega anche che ci sia mai stato, come invece sostenuto da Lo Iacono, un qualche accordo fra lui e Chiarello per non far venire fuori i nomi poi invece emersi di Cocco e Castronovo. Tentenna invece riguardo all’episodio di un possibile incontro tra la moglie di Chiarello e i famigliari di Arcuri (anche lui imputato ndr) in ospedale: «È possibile che io ne abbia parlato, non lo so, io l’ho sentito qui in udienza quello che è successo».
Siragusa smonta anche le altre rivelazioni di Lo Iacono, quelle relative al famoso giubbotto che avrebbe indossato la sera dell’aggressione al penalista. «I vestiti sequestrati sono miei, ma il giubbotto che si vede inquadrato nelle immagini delle telecamere della zona, quella sera, non è il mio – spiega -. Il mio ha un gancetto dietro, in quello delle immagini non c’è. Anche perché non sono io quello, da lì ci passo ma quel giorno no e anche quando sono dentro alla macchina. Forse Lo Iacono ha capito male. Io di quell’aggressione ho parlato solo in termini generali – insiste -, non escludo che posso aver detto come eravamo andati e tornati da là. Che Cocco e Castronovo mi hanno accompagnato con la macchina da mia moglie sì, ma dopo l’aggressione, erano circa alle 23-23.30. Ma prima io ero con Ingrassia, li abbiamo visti e siamo saliti tutti sull’Atos grigia di Castronovo e gli abbiamo chiesto di rifare il giro dal punto dell’aggressione per vedere se c’era movimento, qualcosa». Insomma, a suo dire Lo Iacono avrebbe frainteso molto di quello che potrebbe aver sentito. Ma anche su questo punto, sul fatto di aver sentito o meno, i dubbi non mancano. Perché il collaboratore ha spiegato di aver colto molti dei dettagli poi riportati a processo passeggiando avanti e indietro lungo il corridoio della sezione e percependo dal blindato aperto o socchiuso gli sfoghi di Siragusa con gli altri detenuti.
«Io ho fatto le prove, tenendolo socchiuso e con la tv accesa non si riesce a sentire da fuori – spiega l’imputato -, si sente solo farfugliare qualcosa, non si riesce a sentire chiaro, ho fatto gli esperimenti, non si sente niente a meno che di non buttare voci. Il corridoio della sezione dovrebbe essere di circa 30 metri, sono in tutto 75 mattoni da 40 centimetri». Un passaggio che resta ambiguo, insomma. «Noi ne parlavamo in condizioni di assoluta trasparenza, nel corridoio o nella saletta, magari sarà capitato anche in cella, ma non c’era nessun motivo di chiudere il blindato e di cercare questa privacy», aggiunge in proposito anche Giancarlo Giugno, un altro detenuto che più volte ha raccolto gli sfoghi proprio di Siragusa. E che lo avrebbe anche aiutato a sistemare alcuni appunti riguardo alcune sue dichiarazioni spontanee che avrebbe voluto rendere al processo: «Mi ha pregato di aiutarlo in qualche maniera a redigere con un computer degli appunti, delle memorie che aveva con sé, aiutandolo con l’italiano a mettere per iscritto quello che lui aveva già scritto in maniera disordinata – spiega ancora Giugno -. Abbiamo assemblato questi foglietti e li abbiamo trascritti, sono dichiarazioni che non so se ha già reso. Così sono venuto a conoscenza del suo racconto, mi ricordo del nome di Ingrassia, di Castronovo, un altro nome Di Gregorio o Di Giovanni, non ricordo bene, non sono nomi che conosco».
Giugno esclude categoricamente, poi, come fatto poco prima anche dallo stesso Siragusa, che ci sia mai stato un litigio dentro la cucina della sezione con Lo Iacono, che invece aveva dal canto suo raccontato addirittura di essere stato spinto contro un frigorifero da Siragusa dopo averlo sollecitato a dire la verità. «Io personalmente non ho mai visto alcuna discussione tra Siragusa e Lo Iacono, mai visto nessun attrito, erano in buoni rapporti, spesso cucinavano insieme per interi pomeriggi – racconta Giugno -. Dall’inizio alla fine, quando Lo Iacono è stato trasferito c’è stato anche un momento di commozione fra i due». In linea, insomma, con quanto riferito anche da Siragusa oggi: «Io non gli ho mai messo le mani addosso, in cucina non è mai successo niente – insiste anche l’imputato -, mai nessun battibecco lì con Lo Iacono, assolutamente, io lo trattavo troppo bene». C’è un altro detenuto ancora, anche lui a Velletri con loro, che racconta oggi la stessa versione: «Lo Iacono non ha litigato mai con nessuno, lo volevano bene tutti», dice infatti anche Sebastiano Pagano. «Io so solo che Siragusa voleva dire la verità e insisteva che erano state coinvolte persone innocenti che non c’entravano niente – aggiunge -. Di questo mi parlava nel mio blindato, che io tengo sempre aperto».
L’ultimo a prendere la parola è Salvatore Battaglia, ex datore di lavoro di Francesco Lo Iacono quando ha lavorato al bar Bobuccio, in zona Porta Carini. «Lui è tornato da me al bar circa otto-nove mesi fa per vedere se poteva tornare a lavorare, mi disse che aveva avuto problemi con la giustizia. E io l’ho riassunto – spiega oggi -, ha fatto quasi due mesetti. Ma ha avuto dei problemi famigliari con la moglie, che si riflettevano nel lavoro…si alzava tardi e arrivava tardi. Gliel’ho fatto presente più volte, lui si è lamentato e io l’ho licenziato. E lui la prese malamente, passava davanti al bar senza salutare più». Ammette, poi, di conoscere Gregorio Di Giovanni, «è il cognato di mio cognato. Non veniva mai al bar da me però, solo poco prima di venire arrestato è capitato che ha ordinato delle torte». Nel suo bar, spiega anche, Lo Iacono non sarebbe mai stato addetto al domicilio, «per quello c’era un ragazzo. E comunque – aggiunge, precedendo le domande del pm – di sera non facevamo mai il servizio a domicilio», ammettendo di aver letto sui giornali quanto raccontato proprio da Lo Iacono al processo, che Battaglia definisce oggi «tutte diffamazioni».
La casa di via San Gregorio, intanto, in cui Lo Iacono sarebbe andato a portare dei caffè sentendo Gregorio Di Giovanni parlare di dare una lezione all’avvocato Fragalà, di fatto esiste ed è stata, all’epoca, nelle disponibilità di Battaglia. Che oggi dice di averla affittata in nero ad una famiglia per circa cinque-sei anni, circostanza di cui quindi non esistono prove materiali. Nella stessa via ci ha abitato anche la madre di Battaglia e la sua casa sarebbe stata usata spesso per custodire le bottiglie alcoliche più preziose, che a turno i ragazzi del bar andavano a prendere a seconda della necessità, «tutti conoscevano quella casa, chiunque abbia lavorato al bar c’è entrato». A turno, insomma, non è solo Siragusa a smentire quanto raccontato da Lo Iacono, ma anche gli altri due detenuti con loro a Velletri e l’ex datore di lavoro del bar.
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