Impressioni ed emozioni di una nostra redattrice in visita al carcere di Augusta, insieme ai ragazzi del laboratorio Tradurre per la scena della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania. Tra porte che si chiudono, colori e sorrisi- Tu chiamale, se vuoi, evasioni
Nulla di strano, solo persone
Una bella giornata di sole e una simpatica comitiva di studenti. Posteggi la macchina in un parcheggio ordinatissimo, attorno a te vedi qualche aiuola ben curata, ché il verde è sempre rasserenante. Potrebbe sembrare una gita, se non fosse che la meta è il carcere di Augusta. E la realtà ti raggiunge prepotente, quando ti spiegano che devi lasciare tutto, proprio tutto ed entrare senza niente. “Ma neanche le chiavi della macchina?” è stato il primo pensiero della sottoscritta: un modo inconscio per mettere al sicuro l’unico mezzo per andare via da lì e tornare a casa.
Una grande porta che si chiude con un rumore assordante. Un metaldetector, come quelli dell’aeroporto, ma che fa più paura. E poi ancora una, due o forse tre porte che si chiudono alle tue spalle con un rumore metallico. Ad ogni tintinnio un grammo d’angoscia in più e gli occhi fissi a terra, perché se si guarda indietro, magari viene un po’ da scappare.
Però ci sono le battute e i sorrisi dei ragazzi a spezzare il silenzio spesso e i volti a tratti tesi, gli stessi ragazzi che finalmente ricordi che non sono qui in gita, ma per recitare. Portano in scena il loro spettacolo e attendono le letture dei detenuti, in uno scambio artistico e di vita. Nell’arco della mattinata, noi impariamo com’è il tempo quando non ti appartiene e loro, forse, respirano un po’ di quell’aria di fuori, che è tanto diversa da quella densa di dentro.
Corridoi ampi e lunghi, ai lati diverse aule linde e organizzate, come non se ne vedono nemmeno nelle scuole della città. “Oggi ci sono anche gli esami di licenza media”, ci spiegano.
Ai lati, dalle grate in alto, si intravvedono le finestre sbarrate delle celle dei detenuti. Sono colorate. Magliette, pantaloni, indumenti vari, stracci… “Ho visto come è possibile racchiudere la tua vita in uno spazio delimitato”, commenta Lia, e non si può aggiungere altro. Nonostante tutto, è proprio vita quella che quei colori sprizzano. Strizzata, mutilata, esposta, ma vita.
“Questo è un carcere solo per adulti ed esclusivamente maschile”. E fin qui, niente di strano, finché non entri in sala e vedi qualche centinaia di occhi puntati addosso, anzi, attraverso. E invece i tuoi di occhi non sai dove posarli, come muoverti, se ridere, forse è meglio sorridere? Senti solo un gran disagio. E mi viene in mente mia madre, quando va a comprare la carne e la soppesa con lo sguardo.
Una situazione scomoda che svanisce presto, però, come la sorpresa per questi visitatori, che finalmente vengono inquadrati per quello che sono: giovani, studenti, attori, emozionati.
Ma forse sono proprio i ragazzi i primi a sciogliersi, d’altronde non si aspettavano nulla di strano, lo avevano detto, e sembra quasi che la loro ansia sia più per la prima dello spettacolo che per il luogo in cui si trovano. A far prendere loro confidenza con la situazione ci pensa il tempo, che sembra non trascorrere mai, ma che viene riempito con dei momenti forti, come la proiezione del mediometraggio dei ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Catania e le letture dei detenuti. Letture dall’intonazione semplice, affatto costruita, perché tanto “non è che uscito di qua faccio l’attore”, ma che proprio per questo prendono di più. E Pessoa non esiste più, Pessoa è ognuno di loro, che ci sta regalando un pezzetto della sua vita, un po’ meno colorato delle magliette appese fuori, ma più vero e ugualmente tangibile.
Poi arriva il turno dello spettacolo degli studenti di Lettere e tutti, miracolosamente, sono attenti. Penserai “stanno dormendo”, ché una favola non sembra poi il genere più adatto, e invece sono concentrati, gli occhi fissi sul palco e sui quei ragazzi, il silenzio è rotto solo ogni tanto da qualche risata, commento o battuta. Che per una commedia significa che è riuscita.
Il successo però te lo fanno sentire loro stessi, i detenuti, in una folla che si riunisce attorno ai ragazzi: mani che si stringono, in un turbine di complimenti e auguri. E loro, gli studenti-attori, sorridono e ricambiano, come fosse la cosa più naturale.
E vai via da lì con l’impressione di aver fatto una bella esperienza, ma purtroppo per nulla rappresentativa. Il carcere non è dappertutto così. Ad Augusta la struttura è nuova, costruita all’inizio degli anni ’90, curata, con delle belle aule dove i circa seicento detenuti possono forse riprendersi un’occasione, almeno una di quelle che sono loro sfuggite. Parliamo di persone che trascoreranno lì parecchio tempo, alcuni al 41 bis, e comunque tutti con la certezza della pena: ad Augusta, infatti, non si transita in attesa di giudizio. Il direttore si scusa perché in una cella da uno o due posti massimo si devono adattare in tre, e il pensiero corre veloce a Piazza Lanza, dove le celle sono sottotterra e i numeri degli inquilini sono quanto meno duplicati.
Ci sono poi i laboratori, come quello di teatro appunto, o come quello di ceramica che i detenuti seguiranno dividendo i banchi con gli studenti di un liceo di Augusta.
Perché l’aveva detto uno di loro, Salvo, “non mi aspetto nulla di strano, solo persone”.