Da un lato le ‘Ntupatedde, tornate a essere uno dei simboli della festa di Sant’Agata e, dall’altro, il vescovo di Catania Luigi Renna che, durante la messa dell’aurora del 4 febbraio, si è detto dispiaciuto «nel vedere ancora una volta, dietro le candelore, quelle ragazze vestite di bianco». Per il vertice della chiesa etnea «ci sono tradizioni da tramandare e altre che sanno di paganesimo e vanno sradicate. Sant’Agata è morta, non è andata a fare un ballo in discoteca. Per onorarla è meglio indossare il sacco e recitare la preghiera semplice del santo Rosario», ha detto Renna.
Ma chi sono le ‘Ntupatedde oggi? Si tratta di una rivisitazione – il 3 febbraio – di una tradizione risalente all’800. Quando a Catania, durante la festa di Sant’Agata, era consuetudine delle donne aggregarsi e avvalersi del cosiddetto diritto di ‘Ntuppatedda. Un diritto che, tramite il nascondimento totale del volto, la tuppa, dava accesso ad una libertà inconsueta, espressa attraverso il gioco, la seduzione e lo scherno. «La nostra apparizione rivendica la presenza del femminile nella festa – si legge in una nota firmata da Elena Rosa – siamo devote alla Santa, alla donna e alla libertà. Sant’Agata ricordiamo è morta non di morte naturale ma per mano di uomo. Non abbiamo mai mancato di rispetto alla religiosità della festa e la nostra non è una esibizione individualistica ma è relazione, comunità e aggregazione gioiosa. Consideriamo la danza una manifestazione del sacro. Perché la danza è preghiera, è comunità, è liberazione».
«Non smentiamo gli aspetti pagani della nostra presenza semplicemente perché fa parte della storia, ricordando anche il lontano culto di Iside. Non vogliamo cancellare le tracce del passato perché quello che siamo è una stratificazione di memoria e diversità. Nel 2013 siamo ritornate omaggiando le ultime ‘Ntuppatedde apparse nel 1868 quando furono insultate, fischiate e cacciate via in quanto donne che rivendicavano la propria libertà. Il passato persiste nel presente e qui si pone di nuovo una negazione che riguarda sempre la donna, vogliamo ritornare a negarle come nei secoli passati perché adesso danzano con un velo e un fiore in mano? Il nostro passo è così pericoloso? È necessario confrontarsi, dialogare e capire le motivazioni antropologiche e sociali che sottendono ad un movimento che perdura da più di dieci anni e che la gente ormai aspetta. Che piaccia o no la festa è un pullulare di più realtà che in quei giorni si ritrovano insieme a convivere nella pluralità del loro linguaggio».
«D’altronde la Festa di Sant’Agata perché si chiama festa e non Funerale di Sant’Agata? Perché le candelore si annacano e dunque danzano circondate dalle bande con il repertorio dei più disparati brani popolari? Perché i fuochi d’artificio? Perché un proliferare di fumi, banchetti e bancarelle festose? Perché è festa e la festa è dei cittadini e delle cittadine, e della devozione che assume le forme della gioia come quelle della preghiera. Non siamo affatto noi il problema e lo scandalo della festa di Sant’Agata. Queste affermazioni che ci vogliono sradicare ci sembrano provenienti da un oscuro e triste passato di repressioni oltre che anacronistiche in questo momento storico, e ciò non fa che sottolineare l’importanza e la necessita sociale della nostra presenza».
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