Noi li chiamiamo clandestini

Il titolo è provocatorio, “Voi li chiamate clandestini”, per invitare alla lettura di un libro che vuole rendere giustizia a un fenomeno, quello dell’immigrazione, prima economico, poi sociale, politico e culturale. La domanda è semplice: cosa sappiamo della produzione dei pomodori, dei vini doc, delle arance che quotidianamente portiamo sulle nostre tavole? Il libro inchiesta di Laura Galesi e Antonello Mangano, edito da Manifestolibri, risponde smontando tanti luoghi comuni e evidenziando il ruolo del caporalato e dell’intermediazione mafiosa nella produzione e commercializzazione dei prodotti agricoli meridionali. Ad essere chiamata in causa è la responsabilità collettiva della società civile e delle istituzioni a partire proprio dalla scelta dei prodotti da acquistare o no. 

“E’ l’idea di clandestinità a innescare un perverso e pericoloso atteggiamento di emergenza nei confronti dell’immigrazione, – ha spiegato Laura Galesi ieri, durante la presentazione del libro tenutasi presso la Libreria Feltrinelli di Catania – un’idea che associamo al pericolo, alla necessità di adozione di linee dure da parte del Governo e, soprattutto, a forme di razzismo e xenofobia.” L’aspetto economico, ovvero il fatto che l’agricoltura meridionale, da Castel Volturno a Nardò, da Rosarno a Cassibile, si regga sullo sfruttamento di una vera e propria popolazione invisibile, si intreccia irrimediabilmente con le carenze del sistema normativo in materia. Paola Ottaviano, rappresentante di Medici senza Frontiere e avvocato dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione, ha messo in evidenza come l’atteggiamento ipocrita che si ha di fronte a questo fenomeno sia speculare al modello offerto dalle istituzioni, che dimostrano di mantenere una posizione di pugno duro, a partire dalle campagne di espulsione, e al contempo di cecità di fronte alla grandissima presenza di persone sfruttate in condizioni di vita ben al di sotto della media prevista dall’Onu per i campi profughi.

La clandestinità è una condizione generata, quindi, dalle dinamiche burocratiche e normative vigenti e dalla vulnerabilità dell’essere migranti, senza diritti, esposti a ricatti e usure e senza neanche la possibilità di denuncia dello sfruttamento, per il terrore dell’espulsione. Per dimostrare che sono le istituzioni stesse a volere che tutto rimanga com’è, l’avvocato ha inoltre fatto riferimento ad un articolo della legge eliminato un anno fa, “che prevedeva per il lavoratore in nero che denunciasse se stesso e il suo datore di lavoro, l’ottenimento dei documenti e del permesso di soggiorno.” In sintonia è stato l’intervento dell’avvocato Filippo Finocchiaro, anch’egli dell’ASGI, che ha giudicato illogica, irrazionale e discriminatoria, la scelta di limitare la sanatoria del 2010 a colf e badanti, escludendo tutti coloro che lavorano nell’agricoltura, nell’industria e nell’edilizia, che di fatto ha costretto molti all’illegalità di falsi contratti di lavoro come badanti pur di ottenere il permesso di soggiorno.

Il viaggio di Laura Galesi e Antonello Mangano, durato due anni, ha visto come protagonisti “lavoratori carichi di dignità, impegnati in attività sindacali di frontiera (Nardò, Castel Volturno) e nell`antimafia di piazza (rivolte di Rosarno e Castel Volturno)” e non “ultimi” o “schiavi”. Per questo Mangano, nel suo intervento, ha sollevato le responsabilità dei giornalisti suoi colleghi, che spesso hanno veicolato con i loro articoli immagini fuorvianti del fenomeno migratorio, e li ha invitati a una deontologia umana, prima ancora che professionale. Secondo il giornalista, i migranti, soprattutto al Sud, evidenziano problemi che riguardano il sistema di produzione italiano e non la loro presenza nello specifico. Perché? Secondo Mangano per due ragioni: in Italia ci sono leggi che “autorizzano” lo sfruttamento dell’immigrazione e che producono il fenomeno della clandestinità; inoltre, i contadini e produttori agricoli si sentono legittimati allo sfruttamento dei migranti, dichiarandosi a loro volta vittime del mercato monopolizzato dalle grandi catene di distribuzione e commercializzazione, che svalutano i loro prodotti, innescando “una sorta di darwinismo dei rapporti sociali”. Chi è effettivamente a trarre profitto da tali dinamiche? A Licata, i ladri d’acqua mafiosi, nei mercati ortofrutticoli usurai e mediatori, in Campania i Casalesi che controllano tutto il trasporto su gomma, e così via.

I migranti, pur senza diritti riconosciuti, lottano e si organizzano per la tutela della loro dignità, come hanno fatto in Campania l’8 ottobre del 2010, presentandosi ai luoghi di reclutamento con un cartello appeso al petto “Oggi non lavoro per meno di cinquanta euro”. E gli italiani? Forse dovrebbero prendere qualche esempio. I giornalisti freelance, ispirandosi a questa battaglia, hanno lanciato una campagna “Non lavoro per meno di cinquanta euro”, con la quale si rifiuteranno di scrivere gratis.

Un libro importante quello di Galesi e Mangano, che pone quesiti e suggerisce riflessioni e interventi, imponendo a ciascuno di sfuggire alle semplificazioni stereotipiche, così come dall’emulazione dell’atteggiamento miope e schizofrenico delle istituzioni, che, mentre negano il permesso di soggiorno a tutti i braccianti che tengono in vita l’agricoltura italiana, fingendo di non vederli, aprono le frontiere a nuovi flussi.


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