«Per me la figura di un uomo d’onore è un uomo d’onore ah! Una persona integra dentro. Innanzitutto che non ho mai creduto io in questa, nella Cosa nostra ai fini di scopo di lucro non c’ho mai creduto. Io ho sempre pensato che a me … per nobili princìpi per me questo è quello […]
Il clan di Mezzo Monreale e i «nobili principi» di Cosa nostra: «Ci ho sempre creduto dal profondo del mio cuore»
«Per me la figura di un uomo d’onore è un uomo d’onore ah! Una persona integra dentro. Innanzitutto che non ho mai creduto io in questa, nella Cosa nostra ai fini di scopo di lucro non c’ho mai creduto. Io ho sempre pensato che a me … per nobili princìpi per me questo è quello che è Cosa Nostra. Ci ho sempre creduto dal profondo del mio cuore. E mi sono fatto dieci anni di carcere». Parole da libro Cuore quelle spese da Gioacchino Badagliacca, classe 1977, nipote di Pietro Badagliacca, entrambi finiti in manette ieri mattina perché ritenuti parte integrante della famiglia mafiosa di Rocca Mezzo Monreale, all’interno del mandamento di Pagliarelli. Famiglia di cui l’ottantenne Pietro, nelle intercettazioni, si è più volte definito il capo, anzi, il «responsabile», pur con qualche interruzione, dovuta agli anni scontati in carcere, per quarant’anni.
Quarant’anni in cui le cose sono cambiate molto e lo si evince proprio dalla conversazione avuta tra zio e nipote, mediata da un altro nipote (Angelo, il fratello di Gioacchino) e dai loro cugini Pasquale e Michele Saitta. Una discussione tiratissima, durata quasi cinque ore, a tratti animata, con il giovane Gioacchino che, più volte, incalza lo zio. Lo mette in difficoltà, gli fa notare i suoi errori e lo mette in discussione, anche quando Pietro Badagliacca si gioca la carta dell’obbedienza citando i padri fondatori di Cosa nostra e il loro fantomatico statuto. «Tanto per cominciare abbassa la voce … ohu! La devo alzare solo io la voce», ammonisce lo zio. Ma il nipote incalza, appellandosi alla proverbiale democrazia che regola le questioni interne alla mafia: «Però certo … tu mi devi dire che devi alzare tu solo la voce. A me così mi hanno insegnato: siamo la stessa cosa». «La stessa cosa così c’è un principale – riprende Pietro – C’è lo statuto scritto, che hanno scritto i padri costituenti». Il riferimento, secondo gli inquirenti, sarebbe a un foglio dattiloscritto ritrovato nel covo del superboss Salvo Lo Piccolo dopo il suo arresto e che per i magistrati non sarebbe un reperto di archeologia mafiosa, una memoria storica, ma «uno statuto ancora vigente. Indica organigrammi, competenze, rituali di ingresso, diritti e doveri del socio, procedure elettive dei rappresentanti e procedure sanzionatorie per chi viola le regole. Quel foglio dattiloscritto è la carta costituzionale di Cosa nostra. Poche decine di righe bastano per sancire un progetto di continuità con l’associazione degli anni Settanta e Ottanta descritta da Tomaso Buscetta, e cristallizza nella sentenza che ha concluso il primo maxi-processo alla mafia siciliana».
Nonostante le regole, però, la mafia sembra non essere più quella di una volta. E così Gioacchino non placa la sua ira, anzi, continua a rinfacciare allo zio gli sbagli e i punti di disaccordo, in un dialogo che a tratti raggiunge alte vette di melodramma. E mentre gli interlocutori parlano, non sapendo di essere intercettati, vengono fuori gli incontri con i capi mandamento della famiglia di Pagliarelli, i problemi annosi della famiglia Badagliacca, fin da quando era in vita Gaetano (padre di Gioacchino e fratello di Pietro) per arrivare alle richieste di estorsione e agli omicidi mancati. Un corposo impianto autoaccusatorio che suscita non poca nostalgia dei tempi andati nell’anziano Pietro, stravolto dalla discussione: «Dagli anni Ottanta, Novanta … in due ore … era tutto risolto … amunì vai avanti Gioacchì». Ma Gioacchino non si ferma e mette in mezzo tutta la fragilità dell’attuale Cosa nostra: «E che significa questi Ottanta-Novanta. C’era una famiglia con più persone: c’era un capo famiglia, c’era un consigliere, era tutto diverso!».
Alla fine a spuntarla è ancora una volta la proverbiale democrazia mafiosa, ma a favore dell’anziano boss, con una votazione tra i cinque presenti che sancisce l’obbligo tra zio e nipote di fare pace. Un esito che non sta bene a Gioacchino, che addirittura chiede di uscire dall’organizzazione criminale, nonostante le parole dello zio a ricordare che «è più facile entrare che uscire», presentando anche precedenti di uomini d’onore esonerati dal servizio dopo l’ennesimo arresto subito. Un addio che non si consumerà, ma che sarebbe dovuto comunque essere preceduto dall’ultimo grande atto: l’omicidio di un architetto inviso a Giacchino Badagliacca. Un’idea osteggiata dai presenti, ma non per l’efferatezza del crimine, quanto per le modalità con cui era stato annunciato: senza richiesta formale, senza il benestare del capo famiglia, lontano dal territorio della famiglia. L’omicidio in sé? Poco importava «per quello ti aiuto io», «lo faccio io», dicevano a più riprese i convenuti, come fosse l’ultimo dei problemi, specie se paragonato alle imprescindibili questioni di forma.