Dalle testimonianze dei sopravvissuti - tra cui quattro minorenni - emergono nuovi dettagli. Confermato il fatto che in centinaia sono stati chiusi a chiave nella stiva. Scatta il reato di sequestro di persona. «Volevano imbarcare 1.200 persone, ci picchiavano per farci salire. Ho visto tante donne e bambini che sono stati inghiottiti dal mare», racconta il 16enne Said
Naufragio, la Procura chiede convalida dei due fermi «Il capitano beveva e fumava, ha sbagliato manovra»
Ci sono anche quattro minorenni tra i 28 superstiti del naufragio a largo della Libia in cui sono morte più di 800 persone. La stessa notte dell’arrivo a Catania a bordo della nave Gregoretti, dopo essere passati sotto i flash della stampa di tutto il mondo, i quattro sono stati trasferiti al centro La Madonnina di Mascalucia. Mentre gli altri venivano portati al Cara di Mineo. Stamattina hanno testimoniato davanti agli inquirenti: due sono stati portati in un ufficio giudiziario di Catania, gli altri sono stati sentiti nella comunità del piccolo Comune etneo. Il loro racconto aggiunge informazioni importanti al fine di ricostruire la dinamica dei fatti.
Nassir, 17enne del Bangladesh, era sul ponte del barcone che si è capovolto. Non nella stiva, o in coperta, dove centinaia di migranti sarebbero stati chiusi a chiave non riuscendo più a uscire. Nassir aveva trovato posto all’aperto, aveva pagato più degli altri: mille dinari, cioè 900 dollari. «Eravamo una trentina, non di più – ha raccontato all’Ansa – gli altri erano tutti dentro, chiusi. Quando si è avvicinata la nave, l’uomo che era al timone (si tratterebbe del tunisino Mohammed Alì Malek, 27 anni,arrestato dalla polizia ndr) ha fatto una manovra sbagliata ed è andato a sbattere contro il mercantile. Noi ci siamo spostati di corsa verso la prua e la barca è affondata in cinque minuti». Secondo il giovane superstite, l’errore sarebbe stato causato da un motivo preciso: «Ha bevuto vino e fumato spinelli dalla partenza». «Ho sentito le urla di aiuto di chi era stato chiuso nella stiva – ha continuato Nassir, che ha perso una sorella che si trovava con lui nell’imbarcazione – siamo rimasti in mare mezzora fino a quando dal mercantile ci hanno lanciato una fune e ci hanno salvato».
Al momento dell’impatto con il mercantile portoghese King Jacob, il primo a intervenire per prestare soccorso, lo scafista sarebbe dunque stato ubriaco. Ipotesi che il legale dei due presunti scafisti arrestati, Massimo Ferrante, nega: «Negli atti in mio possesso non c’è alcuna testimonianza sull’assunzione di droga e alcolici da parte di nessuno dei due miei assistiti, né è contestata loro un’apposita aggravante». Alle 16 l’avvocato si recherà nel carcere di piazza Lanza per assisterli legalmente. La Procura ha intanto chiesto la convalida dei fermi per Alì Malek, il tunisino ritenuto il comandante, e Mahmud Bikhit, siriano e considerato assistente. Entrambi verranno interrogati nel pomeriggio. Dopo gli ulteriori esami dei sopravvissuti, la Procura di Catania ha confermato la ricostruzione di fatti e in particolare che coloro che si trovavano nei ponti inferiori sono stati chiusi all’interno dello scafo e che le porte sono state serrate. Di conseguenza al capitano, Mohammed Alì Malek, è stato contestato anche il delitto di sequestro di persona, aggravato dalla presenza di minori.
Insieme a Nassir, al centro la Madonnina, c’è Said, 16 anni, di nazionalità somala così come gli altri due minorenni. «Volevano imbarcare 1.200 persone, ci urlavano di sbrigarci e ci picchiavano per farci salire – afferma Said – Alla fine era stracolmo e si sono fermati a 800. Ho visto tante donne e bambini che viaggiavano nella stiva della nave, che sono stati inghiottiti dal mare».
Said ha raccontato all’associazione Save the children la sua storia. E’ partito l’estate scorsa da Raso, la sua città natale in Somalia dove viveva con i suoi tre fratelli e le cinque sorelle. Il 16enne prima attraversa il deserto del Sudan assieme ad altre centinaia di disperati. «Arrivati in Libia ci hanno incarcerato e siamo rimasti prigionieri per nove mesi, fino a quando la mia famiglia non ha trovato i soldi da dare ai trafficanti. Quei giorni li ricordo come fosse oggi – racconta Said – c’erano con me altri ragazzi. Ci trattavano male, non ci davano da mangiare e se stavamo male non ci curavano. Ho visto molti di loro morire davanti a me».
Dopo nove mesi Said riesce a finalmente a raggiungere Tripoli, dove resta nascosto per sei giorni, per la paura che lo arrestassero di nuovo. Poi arriva la sera del 16 aprile ed il suo turno per attraversare il mare. «I trafficanti – spiega – ci hanno preso attorno alle 23 e fatto salire prima su un gommone e poi sul peschereccio, che era già in mare». Il barcone infernale, quello a tre livelli, era lì ad attenderlo. Con centinaia di migranti già a bordo stipati come sardine. «Non riuscivamo neanche a muoverci, avevamo poco cibo e poca acqua, quelli che erano nella stiva sono stati chiusi a chiave». E sono tutti morti. Adesso Said cerca di guardare al futuro e al suo progetto di vita: «Voglio solo arrivare in Norvegia e spero di non dovermi rivolgere di nuovo ai trafficanti».
La Procura di Catania ha messo a disposizione un’indirizzo email – naufragio.wreck.procura.catania@giustizia.it – dedicato ai familiari e ai conoscenti di coloro che potrebbero essere stati sul barcone che si è rovesciato. In modo da contribuire alla conoscenza del numero e dell’identità delle vittime.
Intanto il Comune di Riace, in provincia di Reggio Calabria – dove ha già sede uno Sprar all’avanguardia diventato modello per gli altri – ha dato disponibilità a ospitare immediatamente le persone sopravvissute al naufragio che attualmente si trovano al Cara di Mineo. «Un gesto concreto e coerente con la propria missione istituzionale», sottolineano dall’amministrazione calabra.