Muccino, che Americanata!

Gabriele Muccino torna in America, di nuovo con Will Smith, due anni dopo La ricerca della felicità con l’ambizioso Sette anime. Tante le aspettative sulla coppia che nel primo film sul sogno americano aveva saputo offrire un mix convincente di poesia, realtà e sentimento, un’ottima sceneggiatura e un’interpretazione brillante. Peccato che Sette anime le deluda tutte.

Lo spunto del film è interessante: indagare il mistero dei legami che collegano i destini umani attraverso la storia di un uomo che vuole rimediare all’aver tolto la vita donando la vita, ma la pellicola è molto scontata e la sceneggiatura di Grant Nieporte risulta debole, troppo spezzettata nel tentativo fallito di mantenere la suspense attraverso i flashback e a volte improvvisata.

Il protagonista della storia, Tim Thomas, interpretato da un Will Smith volenteroso, ma stavolta poco credibile, e che per 125 minuti ha l’espressione contratta di uno che sta per scoppiare a piangere da un momento all’altro, è tormentato da un ricordo doloroso e per cercare di rimediare ad un errore del passato, per il quale non riesce a perdonarsi, si erge a giudice. Sotto le spoglie di un funzionario del fisco, va alla ricerca di persone buone e meritevoli, con poca umiltà per essere uno che dovrebbe sapere cosa significa sbagliare, ed è a volte anche crudele, come quando testa la vera natura – ammesso che basti qualche telefonata e un po’ di appostamenti per farlo – dell’operatore cieco Ezra Turner, interpretato da Woody Harrelson (che con il suo talento riesce a far dimenticare la pateticità del suo ruolo).

Il personaggio principale non subisce alcuna evoluzione: non è un caso che il lungometraggio finisca così come è iniziato. Ha un piano fin dall’inizio e nulla, neanche l’amore, riesce a fargli cambiare idea: e se donare la vita a chi si ama, non solo metaforicamente, è la prova d’amore più grande, il suo gesto perde forza perché l’avrebbe fatto comunque, tanto che la storia d’amore sembra solo rallentare il film. È vero, per un attimo Tim si rende conto che forse si è innamorato e di corsa (non in senso figurato: a Muccino a quanto pare piace veder correre Will Smith) va a chiedere al medico se ci sia per la sua amata qualche speranza, ma questa scena passa quasi inosservata, tanto superficialmente è sfiorato il suo dilemma interiore.

La trovata del funzionario dell’Agenzia delle entrate è buona ed attualissima visti i tempi, ma il momento di cui si serve Muccino per rivelare la vera identità del protagonista sembra improvvisato e mostra come in alcuni punti la sceneggiatura sia inconsistente. Tim esce a prendere un regalo in macchina per la donna di cui si è innamorato, interrompendo proprio un momento pieno di tensione romantica, tanto che viene da chiedersi perché lo abbia lasciato in macchina se era così importante. Trova fuori il fratello con cui discute animatamente e che lo obbliga a rientrare solo per salutare e andarsene, ché tanto lui resta lì ad aspettarlo…

E mentre ci si chiede il perché di questa richiesta assurda ad un uomo adulto trattenendo la voglia di gridare a Smith che sta scordando il regalo, comincia la scena d’amore con Rosario Dawson nel ruolo della bella malata Emily Posa. Così, il fratello resta tutta la notte ad aspettare, e per quello che ne sappiamo potrebbe essere ancora lì, e lo spettatore con la curiosità di sapere cosa c’era avvolto in quella carta da regalo blu, senza avere neanche il minuscolo indizio che potrebbe dare significato a quel dubbio e un senso alla scelta del regista.

Il titolo originale Seven Pounds (sette libbre) richiama la libbra di carne («pound of flesh») del Mercante di Venezia Shakespeariano chiesta per saldare un debito, mentre il titolo italiano sposta l’attenzione dal debitore ai creditori risultando, quindi, meno aderente alla storia raccontata, che è in effetti incentrata sul protagonista e nella quale le “sette anime” hanno un ruolo molto marginale, tanto che alcune di loro appaiono solo nei minuti finali della pellicola.

La lista dei sette nomi e la mistica del numero sette in generale non hanno affatto nel film il peso che le operazioni di marketing – titolo, trailer e slogan promozionali (“Sette nomi. Sette sconosciuti. Un segreto” – “Cambierà la vita di sette persone. Una di queste cambierà la sua”) – volevano suggerire.

Inoltre, anche se buoni sentimenti sono da apprezzare, temi delicati come il senso di perdita, il dono di sé e la comprensione sono trattati con troppa superficialità e l’abbraccio finale tra due delle “sette anime” lo dimostra. Il dramma risulta mieloso e artificioso e non mancano le invenzioni maldestre, ‘medusa cubo’ su tutte. L’animale velenosissimo, che aiuta Tim a portare a termine il suo piano, è un personaggio al pari e forse più delle persone cui lui cambia la vita e la scena della vasca, con il triste richiamo a Psycho che si spera non sia stato voluto, è alquanto inverosimile. Il regista italiano preferisce, quindi, lo spettacolo all’approccio intimo e psicologico alla sofferenza che la storia richiedeva. Ma un’espressione triste non basta per parlare di tristezza e così il secondo film americano di Muccino è il suo primo flop e, se è vero il detto che “non c’è due senza tre”, speriamo che la prossima volta non ci deluda.

Agata Pasqualino

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