Monte Cuccio, il profilo tra neve e leggende Il (non) vulcano che piacerebbe ai palermitani

«Vedi, gioia, se un giorno Monte Cuccio dovesse risvegliarsi, avutru chi Etna e Catania: facemu a fine ri surci». Queste, anni fa, le parole della buonanima di mio nonno mentre, affacciati insieme al balcone di casa, indicava con indice tremolante la vetta del monte di fronte a noi che, di vulcanico, ha solo un vago accenno nella sua forma. Le mie conoscenze di geologia non sarebbero mai potute bastare a contraddire i 93 anni di esperienza e saggezza popolare del nonno che, infatti, poco tempo dopo se ne andò a riposare in pace convinto di aver vissuto la propria vita in una città che, dal punto di vista di rischio vulcanico, non avrebbe avuto nulla da invidiare né a Napoli né a Catania. Eppure non solo mio nonno fu vittima di questa singolare e simpatica diceria che vorrebbe a tutti i costi attribuire un’origine vulcanica al monte alle porte di Palermo. Mi capita tuttora di assistere a conversazioni di miei concittadini, anche piuttosto giovani, che ipotizzano e paventano scenari disastrosi nell’eventualità di una possibile riattivazione del presunto vulcano spento palermitano, nella propria personale convinzione che, in tempi passati, Monte Cuccio abbia davvero eruttato come l’Etna.

Complice la presenza del vicino Monte Petroso, piccolo rilievo roccioso la cui struttura sembra ricordare i relitti di rocce più resistenti all’interno degli apparati vulcanici e appartenenti al condotto magmatico, questa leggenda si è alimentata e tramandata tra varie generazioni di palermitani. In realtà Monte Cuccio è un monte costituito da rocce di natura sedimentaria (calcari dolomitici di colore grigiastro e calcari marnosi) e solo la sua morfologia, vagamente conica, potrebbe indurre in inganno, poiché non vi è alcuna traccia di centri di emissione o di altri indizi che potrebbero anche lontanamente collegare la sua origine a un antico centro eruttivo.

Con i suoi 1050 metri sul livello del mare, Monte Cuccio è alto meno di un terzo dell’Etna, eppure la sua presenza si pone con elegante imponenza sulla piana della Conca d’Oro e il suo caratteristico profilo aguzzo è ben visibile da tutta la città. Protagonista dello skyline cittadino, tra tutti i monti circostanti è sicuramente quello più vicino al cuore dei palermitani che guardano la sua cima con rispetto e ammirazione. La sua inconfondibile sagoma è il primo segnale che, in autostrada, conforta lo stanco automobilista di rientro verso Palermo e sembra volergli dire «coraggio, sei arrivato a casa». È il primo rilievo a imbiancarsi nei giorni più freddi dell’anno regalando affascinanti e insoliti paesaggi invernali ai palermitani che, abituati più alla sabbia che alla neve, non perdono occasione per prendere letteralmente d’assalto le sue vallate, armati di slittini e palette.

I sui dolci pendii con le fitte pinete sono da sempre base estiva di villeggiatura dei cittadini del capoluogo che, per via del clima fresco e ventilato e della facile accessibilità dalla città, trovano pace e rifugio durante le lunghe e torridi estati siciliane. Chissà se quello palermitano è un sentimento di rivalsa nei confronti dei cugini catanesi, la cui vita è letteralmente scandita dalla maestosa presenza dell’Etna, oppure se è più un semplice bisogno di sentire anche qui a Palermo un’entità naturale viva da poter ammirare con rispetto e devozione e in confronto della quale sentirsi così umanamente piccoli. Forse è per entrambe queste ragioni che negli anni il palermitano si è raccontato la leggenda del vulcano di Monte Cuccio, leggenda che, a quanto pare, qualcuno ama raccontarsi ancora oggi. Ma non ne rimangano delusi i miei concittadini: Monte Cuccio rimarrà per sempre un vulcano che, ahimè, fumerà solo d’estate durante gli incendi

Michela Costa

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