L'incontro al palazzo arcivescovile, dal titolo Giustizia e bellezza contro corruzione e mafia, è stato lo spunto per una riflessione ampia sul «senso di rassegnazione», come l'ha definito il magistrato, che domina ampi strati di popolazione. «La vera battaglia non è cambiare la Costituzione ma applicarla»
Monreale, anche Di Matteo alla festa di Avvenire «Magistratura è disarmata contro la corruzione»
«A livello normativo abbiamo degli strumenti finalmente efficaci e rigorosi per combattere estorsioni, traffici di stupefacenti, omicidi e tutte quelle manifestazioni di mafia militare, ma ci troviamo sostanzialmente disarmati rispetto al contrasto di quei reati e quelle condotte che esplicano quella capacità, che è anche delle mafie, di penetrare con la corruzione il mondo istituzionale e delle pubbliche amministrazioni». Lo ha detto il sostituto procuratore Antonino Di Matteo, ora alla Direzione nazionale antimafia, nel corso dell’incontro Giustizia e bellezza contro corruzione e mafia organizzato nell’ambito della festa di Avvenire al palazzo arcivescovile di Monreale.
Il magistrato ha poi sottolineato come, a fronte di migliaia di «delinquenti nelle carceri italiane, poche decine stanno scontando una pena definitiva per reati contro la pubblica amministrazione, come turbativa d’asta, corruzione e concussione. Questo è un dato molto preoccupante perché alimenta il senso di impunità, è preoccupante il dilagare di metodi mafiosi e corruttivi ma è altrettanto grave il diffondersi della rassegnazione. È grave ci siano ancora nel nostro Paese questo sacche di impunità, perché sono l’esatta negazione dello spirito più vero della nostra Costituzione, la vera battaglia nel nostro Paese non è cambiare la Costituzione ma applicarla».
Per Di Matteo, inoltre, «nella stragrande maggioranza dei casi, attraverso il sistema della prescrizione dei reati, si riesce a uscire indenni dal processo e questa è una sconfitta per la giustizia, non solo per le persone offese e i tanti amministratori coraggiosi che fanno i conti con le difficoltà quotidiane, ma perché così si diffonde questo senso di rassegnazione e accelerazione della corruzione, come se fosse una condotta ormai necessaria nell’epoca dello sviluppo e del consumismo. Ecco perché – ha concluso il sostituto procuratore – anche noi magistrati avvertiamo a volte il pericolo di una giustizia a due velocità: rigorosa e a volte anche spietata nei confronti della criminalità comune, ma che non riesce ad essere altrettanto spietata nei confronti del potere criminale».
Il magistrato ha poi riservato alla platea una riflessione sul rapporto tra Chiesa e mafia: «Se per anni la Chiesa si è accontentata di finte manifestazioni di religiosità limitandosi a condannare il fenomeno mafioso – ha detto – negli ultimi anni è stata sempre più onesta. Spero di sentire più spesso questo richiamo di condanna, dalle più alte gerarchie ecclesiastiche all’ultimo prete di campagna, perché da credente e da magistrato ritengo che non esista un fenomeno più antitetico di quello mafioso rispetto al credo cristiano. Anche nelle intercettazioni si coglie la preoccupazione di una chiesa forte nel denunciare il sistema mafioso e la rabbia verso chi, all’interno del clero, ha il coraggio della parola».
All’incontro, presieduto dall’arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, ci sono anche Silvano Tomasi, nunzio apostolico e membro del dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, Vittorio Alberti, filosofo, e il sindaco di Monreale, Piero Capizzi.