Monologo intorno alla morte nel Paese delle tasse

“Cumpà, quannu muriti? Taccio sulla mia risposta impreparata rispetto la bellezza della domanda. In paese dicono che è uscito di testa per una negativa d’amore. Ora gira da solo per i vicoli, parla da solo, è solo. Il tema della morte non è presente in nessun emendamento parlamentare.

Questo è un paese – sta sui Nebrodi, sta oltr’Alpe, sta a Roma – in cui non si dà peso alle morti, uguale alle schede annullate, a quelle bianche. Oltre la comunicazione non si va, né si interpretano le percentuali. E’ un paese in cui non si dà peso ai suicidi, oggi in quota piccola imprenditoria. Togliere lavoro alle famiglie senza averne colpa, per ritardi istituzionali, per ritardi di pagamenti è un argomento che non interessa il governo delle tasse.

Però il tema della morte non va scongiurato, vorrei proprio sapere quando morirò. Oggi, quasi quasi, posso anticipare mese e giorno, guardando il conto in banca, elaborando le cifre in un approssimativo bilancio previsionale.

Ma ci sono le categorie, compresa quella dei giornalisti, che questa storia la raccontano dal balcone: un fatto di cronaca, l’economia non c’entra. La morte, i morti sono fatti di morte. Nicola Cattedra, direttore al giornale L’Ora negli anni Ottanta, cassò un mio titolo perché compariva la parola morte. “Non dobbiamo angosciare i nostri lettori”.

Eppure erano anni in cui la Sicilia si concimava con i morti. Ogni categoria si epura, i morti continuano a non essere economia ma cronaca. Sicché alla domanda “quannu muriti”, da oggi ho cominciato a pensarci scienziatamente, ho idea, se non sbaglio i calcoli, che potrò presto rispondere alla domanda.

 


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