La mafia, oltre che a privarlo del padre, avrebbe potuto rovinargli la vita. L’arte gliel’ha salvata. Emanuele Modica era nato contadino figlio di contadini, primo maschio di sette figli. Quando aveva ventidue anni Cosa nostra gli uccise il genitore, perchè si era opposto al tentativo delle cosche di impadronirsi di un «fazzoletto di terra» che i Modica avevano in affitto, prima della naturale scadenza del contratto, dove oggi sorge parte del carcere Pagliarelli. «Era il 1961 – ricorda Modica – Dopo l’omicidio, ero determinato a vendicare mio padre. Avevo deciso di imbracciare il fucile e uccidere cinque o sei mafiosi. La rabbia era tantissima». Proprio mentre Emanuele coltivava i suoi propositi di vendetta, però, succede qualcosa che gli fa prendere una strada diversa: «Una notte sognai mio padre, seduto davanti a un cavalletto sul quale era appoggiata una tela bianca. Io ero alle sue spalle e lo guardavo stupito. Ma come, pensavo, tu contadino che hai maneggiato sempre la zappa, ti metti a dipingere? Lui si è girato, mi ha guardato e ha alzato il pennello in aria, un monito che voleva significare: ‘lascia stare i fucili, il pennello è la tua vera arma. la cultura può fare moltissimo contro la mafia, la mafia può fare poco contro la cultura‘. E in effetti è così: non si possono ammazzare tutte le persone che fanno cultura antimafia». Una vera e propria svolta: «Mi passò la depressione, sentii un coraggio enorme. Decisi di dedicarmi a promuovere la cultura antimafia con l’arte».
Nel frattempo, scaduto il contratto d’affitto e senza più il padre, il giovane Emanuele si trova a dover trovare un lavoro per mantenere la propria famiglia: «Sul giornale L’Ora uscì in prima pagina la cronaca della tragedia vissuta dalla mia famiglia, con i figli che non avevano più il sostentamento del capofamiglia. Qualcuno si interessò e mi diede un lavoro in un bar in corso Calatafimi, anche se io non avevo mai fatto il barista. Ebbero pazienza e mi insegnarono il mestiere». E dietro al bancone cominciano anche i primi passi nel mondo dell’arte: «Avevo ideato uno stratagemma per arrotondare – ripercorre Modica – Negli scontrini che mi consegnavano i clienti, con due gocce di caffè, a seconda di quello che intravedevo, disegnavo uno schizzo. I clienti erano entusiasti e mi lasciavano laute mance. In un mese il loro ammontare superò addirittura lo stipendio. Ho lavorato otto-nove anni al bar, cosa che mi consentì di mantenere la mia famiglia».
Intanto era arrivata l’occasione per tentare il salto di qualità: «Tutto sta nell’incontrare le persone giuste al momento giusto. Dietro al bancone avevo appeso tre miei lavori. Il bar era frequentato, tra gli altri, da un professore esperto di arte, Ciro Li Vigli. Una volta mi chiese chi fosse ad avere realizzato quei quadri. Gli dissi che l’autore ero io e mi domandò se ne avessi altri a casa e se si potessero vedere. Li disposi a ferro di cavallo, lui venne a guardarli e mi chiese se volessi esporli nella sua galleria d’arte, il Chiodo di via Libertà, una delle più prestigiose a Palermo, ma che io, digiuno d’arte, non conoscevo. Il tutto a sue spese». L’esperienza durò per qualche tempo, poi Modica decise di chiuderla: «Una volta il professor Li Vigli mi vide triste e mi chiese perchè lo fossi. Risposi che quel giorno erano entrate solo due persone nella galleria. Lui mi disse che dovevo abituarmi al pubblico degli addetti ai lavori, io invece volevo che mi conoscesse la gente comune e decisi di chiudere la mostra. Rimasi due anni senza esporre, fino a quando non ebbi l’idea della tenda itinerante con le mie opere».
Era il 1969, Modica realizza la struttura insieme a un amico, poi si rivolge al sindaco di Palermo per sistemarla a piazza Castelnuovo, vicino al palchetto della musica: «Il sindaco, a quell’epoca, era Giacomo Marchello, generale dell’Aeronautica in congedo, che fu entusiasta e si complimentò per il mio coraggio nell’attaccare la mafia in anni difficili. La seconda volta la facemmo nel 1972». E non mancarono noie: «Prima di andare via da Palermo, portai la tenda ad Agrigento, per la festa del Mandorlo in fiore, e poi a Canicattì. Un mio amico mi fece notare che in quel paese c’era il capobastone, tale don Peppino, che di certo non avrebbe gradito. Io gli dissi: ‘andiamo a fare questo omaggio a don Peppino’. Totò aveva delle remore, io insistetti. Alla fine andammo. Dopo un paio di giorni si presentò proprio don Peppino, forse attirato dai cartelloni antimafia. Chiese a Totò chi fosse l’autore delle opere e lui indicò me. A quel punto mi chiese come mai ce l’avessi tanto con la mafia. Senza remore gli raccontai la mia storia. Alla fine mi disse: ‘Ma proprio qui dovevi venire a rompere i coglioni?’ e si congedò. Nei giorni seguenti non venne più nessuno a vedere la tenda. Era il 1972. Da allora non ho più fatto più viaggi in Sicilia con la tenda».
Non più fino ad oggi, con la tenda esposta a piazza Bologni. La tenda vive comunque in una casa museo, a Manzano di Langhirano, in provincia di Parma, dove Emanuele Modica vive con la moglie e prosegue la sua attività artistica nella canonica della chiesa parrocchiale. Qui ha realizzato alcuni restauri e ha arricchito l’edificio con alcune sue opere.
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