A inaugurare la stagione teatrale - la prima dallo scoppio della pandemia - è uno spettacolo in cui le protagoniste e il racconto delle loro vite si mischiano al pubblico, fisicamente ed emotivamente. Vite diverse accomunate dalla stessa tensione, ieri come oggi
Moderne storie di Donne in guerra durante il Fascismo Lo Stabile apre con un viaggio tra sofferenze e coraggio
Sullo sfondo dell’estate del 1944, sei donne, assai diverse tra loro, si ritrovano insieme. In quell’Italia flagellata dalla guerra civile, in cui si piangono i morti mentre gli uomini si trovano al fronte, vivono la drammaticità della loro solitudine. Tempi difficili, in cui i sogni e i desideri possono essere affidati anche a un ciglio poggiato su una guancia. Un racconto che si snoda in un’ora e quaranta minuti quello di Donne in Guerra, lo spettacolo inaugurale della nuova stagione del Teatro Stabile di Catania scritto a quattro mani dalla direttrice Laura Sicignano, che ne cura anche la regia, e da Alessandra Vanucci.
Parte integrante della rappresentazione e partecipe del dramma che man mano si consuma sulla scena è anche lo spettatore che, senza accorgersene, si ritrova sul treno insieme alle protagoniste che si mischiano al pubblico, coinvolgendolo. La morte, la mutilazione, i bombardamenti, la paura dei tedeschi, ma anche la voglia di essere come loro e la gioia di vedere il Duce. Lo spettatore vive tutto, attraversa la storia insieme alle sei donne sempre presenti sulla scena. I personaggi si raccontano con parole semplici. Ma anche dure e, soprattutto, vere. Ciascuna di loro ha ancora vivo davanti agli occhi un frammento di esistenza che, come una bomba, le ha segnate per sempre. Un racconto incessante e continuo che diventa quasi terapeutico perché le aiuta a non dimenticare.
Magistrali le interpretazioni delle sei protagoniste. Federica Carruba Toscano veste i panni di Maria, la casalinga che diventa operaia; Egle Doria quelli di Zaira, la levatrice. Isabella Giacobbe è Irene, la più fragile di tutta la storia; Barbara Giordano diventa Anita, la partigiana; Leda Kreider si trasforma in Milena, l’ausiliaria di guerra affascinata dal fascismo e Carmen Panarello è la signora De Negri, madre e moglie modello. Bella e intensa la scenografia. Al centro di tutto il binario di un treno, spartiacque tra la vita e la morte, lungo il quale ognuna della protagoniste ripercorre la propria esistenza in un viaggio tra la felicità dei ricordi e il dolore del momento.
In un contesto di ottant’anni fa, le donne sulla scena appaiono decisamente moderne e attuali. Sono forti, eroine che non si piegano mai, anche se ferite. Lo spettacolo è un fiume in piena: le loro parole danno battaglia. «Perché? Le donne non fanno la guerra?», fa risuonare Irene. E, dopo aver visto questo spettacolo, la domanda tormenta lo spettatore. A volte vincono, altre perdono. A volte riescono a cambiare un destino già segnato, a volte no, ma ci provano sempre. Come le protagoniste che, alla fine, spogliate dei loro abiti, delle loro vite, dei loro sogni e dei loro desideri, cantano insieme vestite di bianco, unite in un ultimo coro, «Non dimenticar le mie parole». Un motivo liberatorio, come il lungo applauso che le accoglie alla fermata del loro ultimo treno.