Moda fast-fashion e le sue conseguenze

La moda fast-fashion non vuole realmente abituarci ad amare i nostri vestiti, né il nostro pianeta. Le nonne li chiamano ancora i vestiti americani, ma sono solo vestiti usati. In Ghana, negli anni Sessanta, veniva usata un’espressione più macabra: i vestiti dell’uomo bianco morto, del resto, solo da morto un uomo ricco poteva dar via tutta quella roba di valore. Erano gli anni sessanta, il Ghana aveva da poco ottenuto l’indipendenza, quando iniziarono i primi flussi di abiti usati dall’Occidente del mondo. Per intenderci, gli abiti degli europei e degli americani. Da qui, l’espressione usata dalle nostre nonne, quando ancora il second-hand non era trendy, mentre indossare gli abiti da stock provenienti dagli Usa sì. In Africa, invece, era un onore indossare gli abiti degli occidentali, specie perché la maggior parte degli indumenti era pregiata e di elevata qualità e bellezza.

Lo stesso non può più dirsi della merce che giunge oggi in Ghana. Il Ghana resta uno dei principali mercati di indumenti usati del mondo. Meglio noto come Kantamanto, ogni mese il mercato più famoso del continente africano riceve circa 60 milioni di capi di abbigliamento usato, tra cui migliaia e migliaia di vestiti che non possono essere riutilizzati, perché di bassissimo valore e di scarsissima qualità. Se un tempo, il traffico di indumenti consentiva al Ghana, ma anche ad altri Paesi africani, di trarre un profitto dalla loro vendita o, più semplicemente, di attuare un meccanismo di riutilizzo, e dunque di riciclo, oggi la maggior parte dei vestiti usati proviene dall’industria di fast-fashion e può essere (s)venduta solo a prezzi bassissimi o finire direttamente nelle discariche.

Questo accade perché la moda fast-fashion non vuole realmente abituarci ad amare i nostri vestiti, né il nostro pianeta. Ogni stagione, le più grandi catene di moda veloce registrano una quantità di invenduto che manderebbe al collasso qualsiasi altra azienda. Ma il modello di business dell’industria di fast-fashion è congegnato per scaricare questo tipo di perdita economica sugli elementi deboli della catena produttiva. In altre parole, sulle condizioni di lavoro e sulla qualità della materia prima e della manifattura. Questo si traduce, alla lunga, nell’assoluta perdita di valore del prodotto finale, che appare già evidente coi saldi, quando un capo a prezzo pieno costa 59,99€ mentre in sconto solo 9,99 euro.

E l’azienda, comunque, ci guadagna. Non solo, dunque, la merce col cartellino”, quindi le tonnellate di invenduto di queste aziende, che puntano a produrre in quantità, anziché di qualità, ma anche i vestiti usati che ciascuno di noi “scarta” durante le pulizie o il famoso cambio di stagione. Da quando esiste l’industria fast-fashion è sempre più facile acquistare in grandi quantità e buttare via altrettante grandi quantità di vestiti che tanto abbiamo comprato a niente. Oppure darli in donazione ad associazioni che, è bene saperlo, rivendono buona parte dei capi donati ai trafficanti di indumenti usati.

Una volta giunti in Ghana, poi, questi vestiti sono buoni solo per accumulare spazzatura o per essere venduti a pochissimi euro al chilo. Per farla breve, le conseguenze della sovrapproduzione e del consumo di massa non gravano su chi le ha generate, ma, come spesso accade, sui Paesi del terzo mondo. In altre parole, è come se il successo e la ricchezza producessero scorie e avanzi che vengono sistematicamente spedite altrove. La soluzione? Consumare di meno e con maggiore consapevolezza, adottare a livello globale politiche di produzione sostenibili e che riducano al massimo l’impatto dell’industria tessile di fast-fashion, acquistare second-hand e praticare ogni tipo di riciclo. 

Noemi Privitera

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