Cento neodiciottenni stranieri sono stati trasferiti negli scorsi giorni dalle comunità sparse sul territorio etneo al Cara di Mineo. Quando sono arrivati in Italia erano però tutti minori non accompagnati, e in un’attesa protrattasi per alcuni oltre i sei mesi, non hanno ottenuto nessun documento che ne riconoscesse lo status di richiedenti asilo. «Il problema si è creato perché l’iter amministrativo avviato con la questura per ottenere questi documenti va molto a rilento: sono in troppi, migliaia», spiega a MeridioNews Lucia Leonardi, vertice dell’ufficio Responsabilità familiari del Comune di Catania, e con delega all’Emergenza minori migranti. Ora che hanno compiuto diciotto anni «non hanno più la tutela per minore età e il ministero dell’Interno non ha trovato altre soluzioni che mandarli al Cara».
In base alla data di nascita dichiarata al momento dell’arrivo in Italia, la maggioranza dei cento ragazzi ha raggiunto la maggiore età a gennaio 2017. Un numero insolitamente alto, che ha portato la prefettura a organizzare dei pullman appositamente per prelevarli dalle strutture, invece di agire caso per caso come fatto finora. E Leonardi non nasconde il problema di dover provvedere a tutti contemporaneamente: «Immaginiamo già che molti di questi neo diciottenni si allontaneranno in sordina, restando sul territorio senza riferimenti. L’alternativa, non essendoci posti negli Sprar (centri gestiti dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati coordinato a livello nazionale, ndr), era di restare a carico delle strutture. Purtroppo – conclude la funzionaria – dal Comune più che premere affinché almeno al Cara abbiano presto accesso agli incontri in questura per le richieste di asilo, non possiamo fare».
La destinazione .- il Cara di Mineo conta al momento oltre tremila ospiti stranieri, è però «tutto il contrario di quello che vuol dire integrazione: i minori dovrebbero andare negli Sprar dedicati a loro già all’arrivo in Italia, non in strutture emergenziali come fatto finora», spiega Glauco La Martina, presidente della cooperativa Prospettiva di San Giovanni Galermo, che in varie aree del catanese gestisce «uno Sprar, un Fami e altre tre strutture di alloggio miste, ovvero con presenza di minori anche italiani per garantire l’integrazione». Strutture che, al momento, accolgono minori ben oltre i tempi consentiti sulla carta: «Per fare un esempio, nel Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione), gestito direttamente con il ministero, senza intermediari, i ragazzi dovrebbero stare solo 60 giorni. Invece abbiamo 25 persone ferme da oltre sei mesi, senza aver ottenuto non solo un riconoscimento di rifugiato, ma nemmeno l’inizio dell’iter alla questura. Dove non essendoci un regolamento nazionale che dica la procedura da seguire, sono particolarmente rigidi», spiega La Martina.
L’unico metodo per accelerare la procedura è «che il minore si procuri tramite il consolato del suo paese d’origine un documento di riconoscimento con fotografia. In questo modo la polizia provvede a fargli avere il permesso per minore età», spiega La Martina. Il permesso non ha più valore al compimento del 18esimo anno, ma apre al neomaggiorenne un ventaglio di possibilità: «Dall’affido all’avvio di percorsi lavorativi, un’alternativa al restare paradossalmente fermi e a carico dello Stato». Il rischio concreto, secondo il presidente della cooperativa, è che «i minori, soprattutto quelli provenienti da paesi come l’Egitto, che sono più radicati nel territorio, presentino alla questura documenti falsi procurati per pochi euro anche qui in città. Ma chi arriva senza nessun riferimento familiare, e magari da analfabeta, che tutela può avere?». Alla questura di Siracusa secondo quanto riferito da La Martina «ci vogliono solo 60 giorni, come da media nazionale, per ottenere il permesso. Semplicemente perché basta presentare una semplice attestazione», un documento che può essere preparato dalle strutture che accolgono i minori o dai tutori legali che vengono invece regolarmente assegnati dal tribunale competente. Attestazione che consente di frequentare la scuola e di usufruire del sistema sanitario, a prescindere dai permessi rilasciati dalla questura.
«Abbiamo fatto presente insieme ad altre comunità le criticità dei tempi lunghi a Comune e prefettura. Ma al momento quello che mi chiedo è come affronteranno il salto nel buio al Cara di ragazzi che hanno vissuto in strutture per minori protette per oltre sei mesi», afferma Rosanna Di Guardo, presidente della fondazione Cirino La Rosa, del quartiere San Giorgio, che attualmente ospita nella propria struttura oltre trenta minori stranieri non accompagnati. E che ha visto portare via al Cara in questi giorni ben 15 neodiciottenni. «Forse abbiamo un pregiudizio sul Cara – prosegue Di Guardo -, causato dalle inchieste che lo hanno coinvolto ma soprattutto dalla sua dimensione: dovranno vivere con decine di etnie diverse e nuclei familiari, sottostando a dinamiche che forse con l’integrazione non hanno nulla a che fare. Mi sento un po’ come una mamma che deve far uscire dal nido i ragazzi, e mi chiedo: a cosa sono serviti questi mesi in cui ci siamo presi cura di loro?».
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