Migrante suicida, psichiatra aveva prescritto farmaci Bartolo: «Dovevano essere somministrati dall’hotspot»

Al migrante trovato impiccato, venerdì scorso a Lampedusa, erano stati prescritti degli psicofarmaci. Il tunisino – il cui cadavere è stato rinvenuto da un connazionale all’esterno di una casa abbandonata che trova poco fuori dall’hotspot – era stato visitato pochi giorni prima dallo psichiatra dell’Azienda sanitaria locale. La richiesta sarebbe stata fatta del personale del centro. Al momento, però, non è stato possibile accertare se i medicinali siano stati presi, perché è stato impossibile contattare i gestori dell’hotspot – da oltre un anno guidato da un’Ati composta da Croce Rossa e Confederazione Misericordie – e considerato che il migrante da tempo preferiva rimanere fuori dalla struttura, forse per il timore di essere rimpatriato. 

È questa la ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Alì, sul cui decesso la Procura di Agrigento, guidata da Luigi Patronaggio, ha aperto un’inchiesta  – per ora a carico di ignoti – affidandola alla pm Emiliana Busto. Dopo la decisione degli inquirenti di non effettuare l’autopsia, il cadavere, che si trova ancora sull’isola, dovrebbe essere trasferito ad Agrigento, dove potrebbero arrivare i genitori del giovane per il riconoscimento. A quattro giorni dai fatti, a commentare l’accaduto sono in pochi. Se gli attivisti del collettivo Askavusa continuano a chiedere la chiusura dell’hotspot, sottolineando l’inefficienza di un centro in cui i migranti dovrebbero passare soltanto per l’identificazione finendo invece per rimanere anche per più settimane, tra coloro che per ultimi hanno visto Alì c’è il medico Pietro Bartolo, responsabile sanitaria a Lampedusa. «Lo abbiamo sottoposto a una visita psichiatrica. È stato riscontrato uno stato psicotico e prescritta una terapia, ma non posso sapere se l’abbia seguita – commenta il medico a MeridioNews -. Dovevano essere i sanitari del centro a fare in modo che lui prendesse gli psicofarmaci». Del caso, il responsabile sarebbe venuto a conoscenza soltanto di recente: «Quando i sanitari ci hanno richiesto una consulenza specialistica – specifica -. Questi ragazzi escono spesso dal centro, il fatto che vivesse fuori non colpiva nessuno». Bartolo parla poi di come siano diffusi gli atti autolesionistici tra coloro che finiscono per rimanere bloccati nell’isola. Proprio ieri l’ultimo caso, con un migrante che ha ingerito le pile di una torcia. «Lo fanno nella speranza di essere trasferiti con l’elisoccorso a Palermo e da lì provare a scappare», spiega il responsabile sanitario. Stando alle parole di un migrante, intervistato da Libera Espressione, i malesseri di Alì sarebbero stati sottovalutati in un primo tempo dal personale medico: «Noi andare per aiutare lui, andare dal dottore. “Per favore, a lui fa male”. Ma lui (il dottore, ndr) pensare che fare questo per andare in Sicilia», è la denuncia del giovane che però non specifica a quale medico si sarebbe rivolto.

A subire maggiormente la permanenza a Lampedusa è soprattutto chi proviene da nazioni in cui, secondo l’Unione europea, non esistono situazioni geopolitiche e sociali tali da portare al riconoscimento dello status di rifugiato. Con i migranti che sarebbero dunque spinti alla partenza soltanto per il desiderio di migliorare la propria condizione economica. «È chiaro che i disagi psicologici subentrano quasi automaticamente se si è costretti a restare qui due o tre mesi senza fare nulla, ma il fenomeno è più diffuso in quanti hanno la consapevolezza di dovere essere rimpatriati, come nel caso dei tunisini», commenta Bartolo. A riguardo l’opinione degli attivisti di Askavusa è diversa. «La Tunisia ha capito che può ricattare l’Europa, per cercare di ottenere quello che è stato dato alla Libia – commenta Giacomo Sferlazzo -. Il governo di Tunisi al momento non ha alcun interesse a interferire con queste partenze, e questo a spese di chi si mette in mare pur consapevole di rischiare la vita o finire bloccato a Lampedusa». Per gli attivisti, la soluzione rimane quella di regolarizzare i viaggi in aereo: «Se queste persone avessero la possibilità di spostarsi normalmente, si eviterebbero tragedie come quella di Alì», conclude Sferlazzo.


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