Il 10 febbraio 1986 si celebrava la prima udienza del procedimento istruito dal pool antimafia, dove Di Lello lavorava insieme a Falcone e Borsellino. «Da quel momento in poi tutto è cambiato», dice. Ma molto resta da fare: dalla lotta al connubio mafia-imprenditoria alla necessità di norme specifiche per il reato di concorso esterno
Maxiprocesso, il pm Di Lello 30 anni dopo «Stop a prescrizione per la corruzione»
«Spezzò l’alibi di una mafia imprendibile, un segnale positivo da cui non si è tornati più indietro, un metodo d’indagine seguito da altri magistrati palermitani e non». Così Giuseppe Di Lello, pm nel Maxiprocesso e nel pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che rivoluzionò strategie e metodi di contrasto a Cosa nostra, ricorda con MeridioNews quegli anni. In uno sguardo che spazia dal passato per giungere al presente. Trent’anni di cambiamenti positivi ma anche momenti di crisi, non ultimi quelli registrati negli ultimi tempi attorno a quell’antimafia che, per alcuni versi, ha tradito valori e tensioni di un tempo.
«Da quel momento in poi tutto è cambiato – continua Di Lello -. Sono stati inferti duri colpi alla mafia. Certo, non sono mancati i momenti brutti, come quando ci siamo resi conto che lo Stato aveva delegato tutto alla magistratura, mentre continuavano le collusioni imprenditoriali e politiche». Un punto ancora oggi centrale. «La politica non penso sia determinante come un tempo, mentre gli affari sono quello che contano».
E oggi quello stesso Stato, che ieri delegava, sembra potere fare di più. «Ma va pure detto che la legislazione antimafia che abbiamo noi non ce l’ha nessuno – continua il magistrato -. Ora si tratterebbe di premere molto sui reati corollari che alimentano la mafia e sopratutto interrompere la prescrizione, una cosa che tutta la magistratura chiede e che invece pezzi del governo non vogliono. Con la prescrizione cadono molti reati di corruzione e riciclaggio, ed è assolutamente necessario avere questo aiuto». Necessaria anche «una norma specifica» che regolamenti il concorso esterno ala mafia «per avere dei riferimenti chiari e precisi». Reato che non ha un posto preciso nel codice penale, ma che nasce dall’unione di due diversi articoli. E, soprattutto, accusa oggi difficile da provare.
Ma ecco il presente e il giudizio su quell’antimafia finita sull’altra sponda, un passaggio che nessuno pensava possibile ma che invece è accaduto, nonostante il percorso compiuto e quel Maxiprocesso. «Ormai non si capisce più niente – sottolinea Di Lello -, bisogna ristabilire i confini e capire chi sono i veri antimafiosi, non quelli a parole o con la certificazione, ma quelli che veramente denunciano la mafia. Gli imprenditori che denunciano il pizzo e non le associazioni che nascono per amministrare i beni sequestrati e confiscati e che magari sono pure colluse con la mafia».
Oggi, secondo Di Lello, i magistrati in prima linea, impegnati in processi come quello sulla Trattativa Stato-mafia, respirano un clima molto diverso rispetto a quello del 1986. «Si è abbandonata la pratica stragista e omicidiaria – spiega -. Non c’è dubbio che si ha a che fare con menti criminali che potrebbero anche pensare a qualcosa di eclatante, ma devono tenere in conto, e lo hanno sperimentato, che lo Stato reagisce». «Sul processo Trattativa, come più volte ho ripetuto, non sono d’accordo sull’impianto. Se sono stati lasciati soli dalle istituzioni? Non credo proprio, penso che i magistrati l’appoggio ce l’abbiano, si sta facendo un processo».