A predominare sullo schermo sono colori scuri e intensi, immagini un po’ sfocate per mettere in risalto un particolare. La colonna sonora è cupa e le voci dei protagonisti sono profonde e rauche. Questo è il primo impatto, “noir” per tradizione, che ha lo spettatore davanti al film Max Payne, per la regia di John Moore.
Max Payne (Mark Wahlberg) è un poliziotto fallito di New York, relegato a smistare le scartoffie dei casi irrisolti dopo l’uccisione della moglie Michelle e di sua figlia. Instabile emotivamente, Payne inizia la sua indagine personale che lascerà lungo il suo cammino una scia di morti, dal suo informatore a Natascha (la bella Olga Kurylenko affettata in un vicolo buio), al suo ex compagno di squadra Alex Balder. Ad aiutarlo nella sua ricerca è l’amico del padre B.B. Hensley (Beau Bridges) e quello inaspettato della sorella della ragazza, Mona Sax (Mila Kunis). L’indagine porta alla scoperta di una droga sintetica, Valchiria, che dà una resistenza al dolore sovrumana rendendo invincibili, nel limite del possibile, le persone che ne fanno uso. Creata per rendere resistenti i soldati americani impiegati nella guerra del golfo, Valchiria determinerà la morte della famiglia di Payne.
Il film non decolla, non lascia alcun segno. Certe parti della pellicola rimangono dubbie per chi non conosce le dinamiche del videogioco. Alcuni personaggi sono poco sviluppati e altri non sono proprio citati: Mona Sax, ad esempio, è sorella di Lisa Puncinello, moglie di Angelo “don” Puncinello, capo della malavita newyorkese; la moglie di Payne lavorava nell’ufficio del procuratore distrettuale e non nell’azienda farmaceutica Aeris (azienda produttrice di Valchiria), altrimenti non avrebbe senso – nel film – intestare una borsa di studio dell’azienda a suo nome. Il personaggio stesso di Max Payne si vede privato dei pensieri cinici e spietati che rende il protagonista l’antieroe della storia.
Costellato da angeli neri e demoni alati, la parte finale del film sembra un vero e proprio inferno, con tanto di cielo infuocato. Per gli amanti del videogioco, il film è una spina nel fianco non solo perché si discosta dalla storia riadattandola per il grande schermo, pur mantenendo la trama principale, ma anche perché il regista non ha utilizzato tutte quelle tecniche grafiche che rendono particolare il gioco, dal bullet time poco utilizzato (la slow motion durante le sparatorie) alle immagini distorte e annacquate quando Payne ricorda il suo passato.
Delusione cocente quindi per gli appassionati del gioco “noir” per eccellenza, amato anche dalla critica. Il film di Moore rientrerà in quella larga schiera di lungometraggi che hanno visto la loro nascita da videogiochi di successo, come The Hitman, ma che sul grande schermo sono stati massacrati da una visione hollywoodiana e commerciale.
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