Matilde Politi, il carisma della semplicità

 

Trasmette serenità Matilde Politi. E fermezza d’animo che traspare dai gesti, leggeri e decisi insieme, e soprattutto dallo sguardo, continuamente fisso in quello dell’interlocutore, senza mai imbarazzare. Matilde, apprezzata musicista folk siciliana, ha il carisma dell’artista ma anche la fierezza della donna, della madre, con le sue passioni. L’abbiamo incontrata poco prima della sua esibizione al Teatro Sangiorgi, all’interno della rassegna dell’Ame (Associazione Musicale Etnea).

 
Matilde, ci racconti com’è iniziata la tua carriera artistica?
Volevo fare teatro, però contemporaneamente ho studiato musica da autodidatta, da quando avevo 9 anni. Cercavo di formarmi in un percorso da attrice, ma a Palermo non ci sono molte strade. Mi rivolgevo ai collettivi, facevo corsi scolastici e, nonostante fossi ancora al liceo, chiedevo agli universitari. Ho lavorato a tempo pieno nel teatro fino al 2000, soprattutto cantando e dedicandomi al training fisico e vocale a Pontedera, in Toscana, dove c’è un interessante centro di sperimentazione. Contemporaneamente facevo la busker, la musicista di strada. Nel 2000 ho deciso di concentrarmi sul repertorio siciliano, e pian piano questa è diventata la mia strada.
 
Ti sei anche laureata in antropologia a “La Sapienza” di Roma. Quanto hanno influito gli studi sulla tua musica?
In realtà, è più la musica che ha influito sugli studi! Ad essere sincera, l’università non l’ho fatta con molto impegno, perché intanto lavoravo. Ho realizzato dopo che la passione per le tradizioni e le origini delle culture l’ho avuta sin da piccola. Ricordate la rivista Airone? Avrò avuto 5 anni, i miei genitori erano abbonati, e in ogni numero si trovava un sevizio su delle tribù sparse per il mondo: era l’unica cosa che io guardavo del giornale!
Le materie demo-etnoantropologiche però mi sono servite molto ad avere una conoscenza dei percorsi possibili per andare a reperire materiale che mi interessasse.
 
A proposito di folklore siciliano, sei stata definita l’erede di Rosa Balistreri. In una linea tra tradizione e innovazione, dove ti collocheresti?
Non mi piace questa definizione. Non mi stancherò mai di ripeterlo: Rosa Balistreri era portatrice di tradizione nella sua stessa esperienza di vita, perché tanti canti che ha poi riarrangiato li aveva appresi nella sua infanzia. Invece io non lo sono: il mio lavoro è frutto della mia ricerca. Sicuramente c’è però un debito che tutti noi musicisti di folk abbiamo nei suoi confronti, per aver fatto emergere in maniera diversa il repertorio siciliano.
 
Nel tuo percorso artistico però si nota anche l’influenza di varie culture. Cosa significa per te multiculturalità?
Vivendo in un mondo che spinge alla globalizzazione, abbiamo l’opportunità quotidiana di entrare in contatto con fonti culturali diverse. Palrando sempre di musica, comodamente seduta a casa mia posso ascoltare online musica tradizionale di tutto il mondo. In più, vivendo nel mondo ricco e accogliendo l’affluenza dei migranti, concretamente ci troviamo in contatto con la diversità. Più del 50% dei compagni di classe dei miei figli ha genitori stranieri. La multiculturalità diventa inevitabile, e non ha senso chiudersi. Quando posso, però, ci tengo ad andare nei posti di cui mi interessa la musica, per sentirla dal vivo. Perchè testimoniare all’atto di cantare e suonare è diverso.
 
Qual è stata l’esibizione più bella alla quale hai assistito?
I berberi a Marakesh, in piazza. E’ stata la più emozionante, forse anche perchè sono rimasta lì per 10 giorni a suonare con loro. Poi la musica berbera è molto particolare come ritmica e per com’è sentita la poesia del testo, che io non potevo capire ovviamente, ma lo vedevo negli occhi della gente.
 
Ci siamo conosciute in occasione di ‘Donne Contro’. Pensi che l’essere donna abbia influito in qualche modo nella tua ricerca?
Penso che sia inevitabile, viene naturale un interesse per il repertorio di genere. Essendo donna, mi sento più coinvolta nel repertorio femminile, perchè posso più facilmente mettermi in contatto con quello che era il retropensiero di chi cantava quel canto, perché lo faceva, cosa sentiva.
Però non mi faccio condizionare. Ad esempio stasera sfodererò anche un repertorio maschile che, se io fossi “etnomusicologicamente corretta”, non dovrei eseguire.
 
Tre parole per descrivere la Sicilia, al di là degli stereotipi.
Dirò uno stereotipo invece, perchè è pieno di senso! Si continua a non riuscire a cambiare niente.
Lo si vede in tantissimi campi: chi cerca di portare un cambiamento viene bloccato da troppi interessi, piccoli o grandi. E’ molto difficile concretizzare i cambiamenti e renderli stabili.
Questo mi sembra sia un tratto distintivo della vita sociale siciliana.
 
Nemmeno una cosa positiva?
Certo! Ed è anche il motivo per cui sono tornata, dopo aver vissuto per tanti anni fuori. Qui c’è vita, non ci si annoia mai. Sarà il caldo, sarà il carattere umano, ma c’è una vitalità che per me è essenziale. Ora che mio figlio, al sesto anno di scuola, comincia a dire delle frasi in siciliano che non sono forzate, io mi sento proprio orgogliosa! Questa cosa mi dà serenità: può capire i testi delle mie canzoni, ma soprattutto sente di appartenere a un tessuto culturale e linguistico.

Il video in apertura è stato girato da Leandro Perrotta all’Auditorium del Monastero dei Benedettini in occasione dell’evento Donne contro organizzato dalla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere in collaborazione con l’associazione antimafia Rita Atria.

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