Subito dopo la scontata richiesta di riconferma da parte del professor Antonino Recca, il professor Vincenzo Albanese, ordinario di neurochirurgia, è stato il primo in ordine di tempo a presentare la propria candidatura a rettore dell’Università di Catania. Finora è stato anche il più attivo dei cinque candidati nell’uso della mailing list riservata. I suoi comunicati, ciascuno dei quali è dedicato di norma a un ben preciso punto programmatico, sono piovuti quasi quotidianamente. Non senza qualche citazione letteraria o riferimenti a grandi personaggi storici, come il celeberrimo aforisma di Winston Churchill: “A pessimist sees the difficulty in every opportunity. An optimist sees the opportunity in every difficulty”.
Insomma, Vincenzo Albanese si è sforzato di trasmettere l’immagine di un candidato che ha moltissime cose da dire e che intende utilizzare la scadenza elettorale come una opportunity per divulgarle.
Poiché il professor Recca è solo al suo primo mandato è d’obbligo partire da un bilancio della sua gestione.
«Il fatto che ci siano, oltre al Rettore uscente, altri quattro candidati esprime un disagio nella comunità accademica in tutte le sue componenti. A Medicina l’esperienza di questa gestione è stata assolutamente negativa perché ha rappresentato l’ingerenza dei partiti nell’Università».
In verità il rettore ha sempre affermato il contrario. Come sarebbe avvenuta questa ingerenza?
«Il Direttore generale del Policlinico ha un ruolo importante per la facoltà di Medicina, perché la sua componente clinica ne può essere profondamente condizionata. Il controllo del Policlinico – per la consistenza numerica della facoltà di Medicina – è quindi il controllo della facoltà di Medicina, e, visto il numero di docenti, ha un peso anche all’interno dell’Università. L’ingerenza di un gruppo di un partito all’interno del policlinico è stata pesantissima. Quello che temevo si è verificato a tal punto che alcuni professori, per esprimere le proprie esigenze, piuttosto che rivolgersi al Preside o al Rettore si rivolgevano a una certa segreteria politica».
E secondo lei il Rettore ne era a conoscenza?
«Perfettamente».
Come mai sta esprimendo questo disagio solo adesso e non prima? E perché altri docenti non l’hanno espresso?
«Io l’ho espresso con una montagna di lettere, comunicazioni, verbali… solo io perché c’era un clima di paura. Pur opponendomi, quando è stata fatta la proposta d’insediamento del Direttore del Policlinico ho votato a favore. Era chiaramente una provocazione. Ed era un voto fiduciario nei confronti del Rettore che proponeva questo candidato e del Preside che faceva proprie le motivazioni del Rettore».
Chi era questo candidato?
«Vittorio Virgilio».
I suoi timori si sono rivelati fondati o la fiducia è stata ben riposta?
«Dal mio punto di vista sono stati fondati. Andiamo ad analizzare, per esempio, il momento dell’insediamento del dottor Virgilio. Viene nominato Direttore generale e s’insedia nell’Aula del Senato, al Palazzo centrale. Sono presenti: un esiguo gruppo di professori di Medicina, l’Assessore regionale alla Sanità Roberto Lagalla, l’Assessore alla Presidenza della Giunta regionale e tre deputati regionali di un unico partito (che allora si chiamava Forza Italia) che fanno parte di un’unica corrente. I tre deputati in questione – per usare un termine politico molto abusato – sono “vicini” all’onorevole Firrarello. Si tratta di Castiglione, Limoli e D’Agata. Il Rettore dovrebbe fornire una spiegazione di questa particolarissima cerimonia d’insediamento. Gliela chiederò. In quella occasione lui invitò tutti i partiti politici e vennero solo in tre, di un’unica corrente di un partito? E perché non era presente il Preside di Medicina?».
Non è stato invitato?
«Non è stato invitato. È un atto in linea con tutto quello che è successo dopo. Con i partiti bisogna colloquiare. Non averli dentro casa o farsi condizionare nei fatti accademici. Questo è un punto fondamentale nel mio programma».
In questi due anni, com’è stata la gestione Virgilio?
«Io affermo che dentro il Policlinico si è respirata un’aria da partito politico. Non c’è dubbio».
Oltre a lei è sceso in campo anche il professor Antonio Licata. Non le sembrano troppi due candidati della stessa facoltà?
«Sono rimasto molto sorpreso da questa candidatura».
Crede che nella facoltà di Medicina il suo nome verrà appoggiato?
«Spero di avere più consensi nelle altre facoltà che a Medicina».
Nemo propheta in patria?
«In questa mia opposizione la Facoltà mi ha lasciato solo».
E’ soddisfatto dell’ampiezza e della qualità del dibattito che sta precedendo il momento elettorale?
«No, perché queste elezioni sono state compresse in un periodo nel quale ci sono state le festività pasquali e il ponte del 25 aprile, i giorni a disposizione sono pochissimi. Il dibattito elettorale dovrebbe essere qualcosa che arricchisce anche il candidato. E il confronto diretto è importante. Ma per far questo non c’è tempo».
Quindi lei concordava con la proposta della professoressa Zaira Dato Toscano (anche lei candidata) di spostare la data delle elezioni.
«Sicuramente. Alla prima riunione ho proposto che dei 50 minuti che abbiamo a disposizione una parte venisse dedicata al contraddittorio. Mi è stato detto di no».
Spostandoci al suo programma, lei ha evidenziato il problema dello scarso collegamento tra apprendimento teorico e realtà del mondo del lavoro auspicando che le facoltà tornino ad essere “palestre di formazione teorica e pratica”. Che fare, concretamente, per mettere gli studenti in condizione di gettare uno sguardo al di là del muro?
«Ho proposto un modello che si ispira a quello di Medicina. Non concepisco che uno studente che si laurea in Giurisprudenza non sia mai stato in un’aula di tribunale. Quindi, perché l’Università non ha lo studio giuridico universitario? Lo studio diventa una palestra. Gli studenti imparano come il docente si approccia con l’utente, vedono come si fa. Una cosa del genere si può realizzare anche in altre facoltà, tramite contatti con aziende o liberi professionisti esterni».
Su quali basi verrebbero scelti questi enti esterni?
«Occorrerà stabilire dei criteri. Il sistema della cooptazione, anche se è molto discrezionale, è il migliore perché richiama alla responsabilità di chi fa la scelta. Dobbiamo finirla d’essere garantisti a tutti i costi, perché il garantismo porta alla paralisi. In questa maniera l’università scende nella società e comincia ad avere un rapporto con essa».
Riassumendo, che benefici porterebbe la sua proposta?
«Serve ai docenti per migliorare la propria performance didattica e di ricerca, serve al personale tecnico-amministrativo per incrementare la condizione economica e serve agli studenti perché possono usarlo come palestra e laboratorio».
Ci saranno ovviamente dei costi…
«Ma ci saranno dei ricavi. Sarebbe un investimento».
I tagli prospettati dalla riforma Gelmini vanno ripartiti in maniera uguale tra tutte le facoltà o, a suo parere, si impongono misure di riequilibrio? Quali parametri adottare?
«Si tratta di aspetti più tecnici che politici. Ci sono discipline che non hanno mercato. Il “Fondo comune universitario” dovrà compensarle e finanziarle. Vale a dire dovrà privilegiare le discipline maggiormente teoriche e dar di meno a quelle che hanno mercato o se lo stanno cercando».
E dunque ciò varrebbe per le facoltà umanistiche.
«Ma perché la facoltà umanistica non ha mercato? Bisogna entrare nella società per essere competitivi, per dare qualcosa che la stessa società vuole e paga. Così l’Università si autofinanzia e questo ci dà la libertà. L’autonomia economica è fondamentale per avere libertà di pensiero e di azione».
I docenti delle università italiane hanno un’età media più elevata rispetto alla maggior parte dei Paesi europei. Come mai nel suo programma lei ha invece proposto un prolungamento biennale della permanenza in attività o contratti di consulenza per i docenti prossimi alla pensione affermando che si tratta di un obiettivo “sostenibile”?
«Oggi si invecchia diversamente di cinquant’anni fa. Un professore deve andare in pensione a 70 anni e l’Università può dare la possibilità di una proroga di due anni o di fare un contratto di consulenza. Se c’è chi è dotato di un’intelligenza vivace, di un patrimonio culturale importante, perché a settant’anni dovremmo metterlo da parte? Troviamo un modo per utilizzarlo. Non lo si nomini “senatore a vita”, gli si dia un contratto di due anni. Certamente questi provvedimenti non vanno estesi a pioggia, occorrerà essere selettivi».
Può indicare un’altra misura che considera urgente?
«Occorre dare più autonomia alle facoltà: non è possibile che ogni delibera debba passare dal Senato Accademico e dal Consiglio d’Amministrazione».
Ritiene che l’istituzione del corso di laurea in Medicina a Ragusa sia stata una buona scelta?
«Penso che l’università debba essere nella stessa città dello studente anche come luogo fisico. Ci dovrebbero essere, se servono, altre università. I decentramenti dovrebbero costituire un’anticamera per creare autonomia. Un po’ com’è successo per Enna».
Che ne pensa dell’esito della controversia finanziaria tra il nostro ateneo e la Kore?
«Se l’Università di Catania doveva avere un ricavo molto alto e poi con l’arbitrato ha ottenuto poco o niente è un fallimento».
I ricercatori precari dell’Ateneo di Catania si sono organizzati in un comitato e hanno chiesto una rappresentanza, che è stata loro accordata solo parzialmente. Se verrà eletto, come si porrà nei confronti di queste figure professionali?
«È troppo facile dire che dobbiamo stabilizzarli. Il precariato purtroppo è un’esigenza nella pubblica amministrazione. Sanarlo non è semplice e sarebbe comodo per me distribuire illusioni e promesse, ma non si può fare un dibattito elettorale così. È qualcosa che va studiato molto bene dal punto di vista tecnico. Se ci fosse la volontà politica di riassorbili, dovrebbe avvenire in maniera selettiva. Non bisogna dire “io vi sano”, ma dare opportunità».
Per terminare, qual è lo studente ideale?
«Quello che studia, crede in quello che vuol fare e si impegna allo spasimo. Quello che non dice “non si può fare” o “c’è un problema”, ma “ho trovato la soluzione”».
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