Mafie, trovati i resti di Lea Garofalo Aveva denunciato l’ex compagno boss

Una tomba sulla quale posare un fiore e una lapide con un nome. Forse per Lea Garofalo, testimone di giustizia calabrese rapita a Milano e uccisa nel 2009, dopo la giustizia in un’aula sembra essere arrivata anche la pace di una tomba nella quale ricomporre i suoi resti. Lea, ex compagna del piccolo boss di Quarto Oggiaro, quartiere del capoluogo lombardo, Carlo Cosco, fu rapita, uccisa e il suo cadavere bruciato – non sciolto nell’acido come sostenuto fino ad ora – proprio dal convivente e i suoi due fratelli. Il suo corpo è stato ritrovato in un campo in Brianza un mese fa e manca solo la conferma del dna per avere la certezza definitiva, ma per gli inquirenti sono altissime le probabilità che si tratti della testimone grazie anche a una collana ritrovata accanto al corpo.

Lea Garofalo

Il processo si è concluso lo scorso 30 marzo e un ruolo rilevante lo ha svolto la giovane figlia di Lea Garofalo, Denise. Per i sei imputati le accuse riconosciute dai giudici sono sequestro di persona, omicidio e distruzione di cadavere, ma non viene riconosciuta l’aggravante mafiosa. Per Carlo Cosco e suo fratello Vito la pena è l’ergastolo con isolamento diurno per due anni. Stessa pena – ma con un solo anno di isolamento – per Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino. Quest’ultimo era l’ex fidanzato di Denise che aveva avvicinato la ragazza su ordine della famiglia Cosco con lo scopo di controllarla ed evitare che seguisse l’esempio – intollerabile, secondo le dinamiche della ‘ndrangheta – della madre.

La storia di Lea Garofalo, per come era conosciuta fino al ritrovamento del suo cadavere, è raccolta nel dossier Sdisonorate: più di 150 storie di donne uccise dalla criminalità organizzata, a cura di Irene Cortese per l’associazione romana antimafie daSud. Vi proponiamo il passaggio sulla giovane testimone morta a soli 35 anni. 

Monza, 2009
Lea Garofalo ha pagato con la vita la sua scelta di diventare una collaboratrice di giustizia. Rapita e torturata, il suo cadavere è stato poi sciolto nell’acido. Originaria di Petilia Policastro (Kr), diventa collaboratrice di giustizia nel 2002, quando decide di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e un’altra rivale.

Già a maggio 2008 l’ex compagno Carlo Cosco cerca di farla rapire a Campobasso, ma l’agguato fallisce. A novembre 2009, con il pretesto di mantenere i rapporti con la figlia Denise, legatissima alla madre, Cosco attira la sua ex a Milano con la scusa di parlare dell’università della figlia. Ma al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla al Sud Lea non arriva mai.

Almeno quattro giorni prima del rapimento, Cosco ha predisposto un piano contattando i complici: erano pronti il furgone con a bordo 50 litri di acido, la pistola per ammazzarla «con un colpo», il magazzino dove interrogarla e l’appezzamento dove è stata sciolta nell’acido, per simulare la scomparsa volontaria. Il processo ai suoi presunti assassini è stato azzerato e, se entro luglio 2012 non si arriverà a una conclusione, gli imputati potrebbero tornare tutti in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare.

Estratto dall’articolo Donne che fanno paura, a firma di Francesca Barra , pubblicato sul settimanale Sette del 3 novembre 2011.
[…] E se sempre più donne stanno diventando complici di dolore, prendendo le redini di cosche e amministrando beni e rapporti con i fornitori, sono anche molte donne, che senza fare lo stesso clamore, decidono di collaborare. E sempre più donne stanno piegando la ndrangheta. Non tanto per le rivelazioni che forniscono, ma per il solo fatto di avere consapevolezza di sé, del proprio destino, di avere una forza individuale. E questo, un ndranghetista, non può permetterlo. Sono loro, le nuove donne che fanno paura. Più di quelle ai vertici dei clan.

[…] Lo sa bene Denise, la figlia di Lea Garofalo, che ha poco ha testimoniato nel processo contro i presunti assassini della madre, costituendosi parte civile. Sul banco degli imputati, il padre Carlo Cosco, due zii paterni e altri tre collaboratori. Non è facile e non è da tutti guardare negli occhi il proprio padre in circostanze simili. Ma lei ha dimostrato di essere dalla parte della verità. Come la giovane Rita Atria, prima di lei, riuscì a dimostrare alla sua terra. Sono piccole grandi donne che diventano mature in fretta. Troppo in fretta per non trasformare il dolore in profondo e definitivo riscatto.

[Foto di Siddy Lam. Foto di Lea Garofalo di Osservatorio provinciale sulle mafie Novara]


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In un campo in Brianza sono stati ritrovati quelli che probabilmente sono i resti della testimone di giustizia di origini calabresi che aveva raccontato ai giudici le faide tra la famiglia dell'ex compagno e un clan rivale. Per il suo omicidio sono stati condannati l'ex convivente, due suoi fratelli e il fidanzato della figlia che aveva il compito di impedirle di seguire l'esempio della madre

In un campo in Brianza sono stati ritrovati quelli che probabilmente sono i resti della testimone di giustizia di origini calabresi che aveva raccontato ai giudici le faide tra la famiglia dell'ex compagno e un clan rivale. Per il suo omicidio sono stati condannati l'ex convivente, due suoi fratelli e il fidanzato della figlia che aveva il compito di impedirle di seguire l'esempio della madre

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