L'operazione Chaos di questa notte nasce da un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 31 persone. Al centro la figura di Antonio Tomaselli, detto Capelli bianchi, che avrebbe preso in mano le redini della cosca ad aprile 2016, dopo gli arresti dell'inchiesta Kronos. Guarda foto e video
Mafia, scardinato il vertice operativo dei Santapaola Avvertimento ai Mazzei: «Evitiamo ci siano morti…»
Dopo
Kronos è il momento del Chaos. La fotografia di Cosa nostra a Catania scattata dalla procura inverte i tempi della mitologia greca e racconta la riorganizzazione della famiglia Santapaola-Ercolano. L’operazione di questa notte – che ha portato in manette 31 persone, senza lasciare indietro latitanti – è un’immagine di quanto accaduto dopo che, ad aprile 2016, a finire in manette era stato Francesco Santapaola – figlio di Salvatore (Turi colluccio), cugino di Nitto -, secondo gli investigatori reggente del clan, assieme ad Aldo Ercolano e Francesco Amantea. Da allora, a colmare il vuoto di potere sarebbe stato Antonio Tomaselli, detto Capelli bianchi, per i magistrati uomo di fiducia di Enzo Santapaola (figlio di Nitto) e, in qualche occasione, accompagnatore personale di Aldo Ercolano. «Carta» alla mano, Tomaselli avrebbe avuto a disposizione non solo l’elenco delle estorsioni, ma anche quello degli stipendi da pagare agli affiliati. «A certi livelli – spiega il procuratore capo Carmelo Zuccaro – detenere la carta significa avere la direzione del gruppo». E se il profilo di Tomaselli, prima di adesso, non era mai emerso in maniera netta sarebbe solo perché «fino agli arresti di Kronos non aveva avuto bisogno di esporsi». Lavorando dietro le quinte, come longa manus i cui messaggi sarebbero arrivati tramite portavoce.
Missive chiarissime, dirette – per esempio – alla
famiglia Mazzei. Per gli investigatori, il vuoto di potere derivante dall’arresto di Francesco Santapaola si sarebbe tradotto, per i Carcagnusi, in un tentativo di prendere spazio. Con intraprendenza e, a volte, anche insubordinazione rispetto alla famiglia di Cosa nostra. Così quando Santo Di Benedetto, accusato di essere affiliato ai Mazzei, avrebbe aggredito il presunto responsabile del clan della Stazione dei Santapaola Ercolano, Alfio Davide Coco, si sarebbe reso evidente il bisogno di ripristinare l’ordine. E le regole. «Questa situazione si deve fermare – avrebbe fatto dire Tomaselli ai Mazzei, tramite un emissario – Non ci siamo permessi mai di fare queste cose fra noialtri: ci sediamo e la discutiamo civilmente». E quando la civiltà, in Cosa nostra, non dà i risultati sperati «ci sono morti e cose… E questo dobbiamo evitare». Perché i morti attirano l’attenzione e non piacciono a nessuno. Bisogna pensarci solo quando i problemi sono irreparabili e, alle volte, hanno un nome e un cognome importante. «Noi abbiamo avuto dei problemi dentro casa nostra – continua il messaggero – E noi stessi li abbiamo risolti. Ora questo è un problema che pende più da voi».
L’esempio non tarda ad arrivare: «Quando noialtri abbiamo avuto Angelo… E ‘mbare, Angelo ha pagato per tutti gli sbagli che ha fatto». Il riferimento è ad
Angelo Santapaola, la scheggia impazzita del clan, ucciso assieme a Nicola Sedici il 26 settembre 2007, in un macello abbandonato nella zona industriale di Catania. Corpi carbonizzati chiusi dentro ai sacchi dell’immondizia, riconoscibili solo grazie a lunghe analisi scientifiche e a quelle fedi nuziali, rimaste attaccate alle dita bruciate. «Prendeva le decisioni lui solo – prosegue l’intercettazione, datata pochi mesi fa – E là è stata la stessa cosa: tutti quanti si sono seduti… E si chiamava Santapaola, non si chiamava con un altro cognome. Questo per farti capire: perché quando muore un Santapaola, viri ca’ fa sgrusciu. E questi sono gli esempi che abbiamo dato per gli sbagli che ha fatto». Più che un messaggio, un avvertimento e un invito al clan Mazzei: fate ordine al vostro interno, a modo vostro, o lo faremo noi. A modo nostro. Come sarebbe andata non è possibile saperlo: gli arresti di oggi hanno cambiato le cose.
«La raccolta delle informazioni, l’informativa dei carabinieri, il lavoro della procura e quello dell’ufficio gip si sono svolti in tempi rapidissimi», prosegue Zuccaro. Proprio per evitare che reati gravi diventassero ancora più gravi. «Usando una metafora, potremmo dire che stavolta
invece di giocare in difesa abbiamo giocato in attacco – commenta il procuratore aggiunto Francesco Puleio – Nonostante le difficoltà di inserirsi nel loro sistema di comunicazione. C’erano numeri di telefono, talvolta intestati a persone che ne erano del tutto ignare, che venivano usati solo allo scopo di prendere appuntamenti. Un circuito citofonico, fatto di cellulari usati solo per motivi di lavoro. Un metodo, se vogliamo, simile a quello usato dai brigatisti». Una volta trovato il primo numero, però, gli altri sono arrivati a cascata. E gli incontri registrati hanno permesso di scardinare il sistema partendo dai vertici operativi. «Unica nota negativa – conclude Zuccaro – Rispetto ai sei tentativi di estorsione documentati, non abbiamo incontrato la collaborazione degli imprenditori colpiti».