Pagare il pizzo può essere un peso economico e morale. Il timore delle ritorsioni, però, può anche essere più forte. Il processo Aquilia sui Santapaola ad Aci Catena ha fatto luce su una lunga serie di estorsioni, mettendo in risalto la poca fiducia nella giustizia
Mafia, quando la paura di denunciare vince su tutto Vittime: «Il pentito ha parlato, ora ci mette nei guai»
«Lo sanno che dobbiamo pagare, che non possiamo fare niente. Che fai? Fai il malandrino che gli dice che non paghi?». Per comprendere quanto Cosa nostra sia un fenomeno infestante, non si deve per forza tenere conto dei fiumi di droga gestiti o dei voti che riesce a controllare. A volte basta soffermarsi sugli effetti indiretti provocati nei contesti in cui si muove. Tra le vittime. La paura diventà così unità di misura del potere mafioso e, in un ribaltamento di piani, di come lo Stato non riesca a essere argine ai soprusi. Anzi, tutt’altro: il magistrato può trasformarsi in un’insidia, un collaboratore di giustizia in «un figlio di puttana» e l’occasione di denunciare in un grattacapo di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Ha valore paradigmatico, in tal senso, la sentenza del processo Aquilia sulle attività criminali dei Santapaola ad Aci Catena. L’inchiesta è quella che ha travolto anche l’ex deputato e sindaco Pippo Nicotra, condannato in primo grado a oltre sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Nelle cinquecento pagine depositate dalla gup Anna Maria Cristaldi, sono raccolti diverse estorsioni compiute dal clan ai danni di attività commerciali. Il pagamento del pizzo, in alcuni casi, andava avanti da vent’anni. Con cadenza regolare: a Pasqua e Natale, in una circostanza si pagava anche ad agosto, quando in paese viene festeggiata la Madonna della Catena.
A finire nella rete dei Santapaola sono state farmacie, tabaccherie, negozi di mobili, bar, panifici, rivendite di materiale edile. Nella totalità dei casi i titolari, convocati in procura, hanno tentato di negare di pagare la cosca. Poi, però, davanti all’evidenza dei fatti, rappresentata dai racconti dettagliati fatti da Mario Vinciguerra, l’ex reggente dei Santapaola passato a collaborare con la giustizia, hanno confermato la ricostruzione. Questo è il caso del titolare di una rivendita di tabacchi, che per anni ha pagato due rate da novecento euro ai Santapaola. I soldi venivano dati in una busta, con la scusa di acquistare un pacchetto di sigarette. «Purtroppo ho dovuto, sapevano tutte cose», racconta il titolare alla moglie. È il 9 agosto di tre anni fa, l’uomo è da poco tornato dall’interrogatorio. A essere ascoltata dai magistrati è stata anche la donna.
Dalle parole della coppia trapela la paura che possa spargersi la notizia della convocazione – «non deve sapere nessuno che siamo andati» – anche perchè, circa due settimane prima, un esponente del clan era passato dalla rivendita facendo capire di essere a conoscenza del fatto che ci fossero indagini in corso. D’altra parte, la notizia del pentimento di Vinciguerra già anni prima aveva fatto tremare il gruppo criminale. Ma aveva creato disappunto anche altrove. «Gli ha raccontato (Vinciguerra, ndr) che, una mattina che ci hanno rubato, io sono andato da lui… Cose da scimunire, figlio di puttana», commenta l’uomo ignaro di essere ascoltato dai carabinieri. La ritrosia a dare il proprio contributo alle indagini, confermando di fatto di essere stati vittime della mafia, viene superata soltanto quando gli inquirenti fanno presente che, dicendo il falso, i due potrebbero essere accusati di favoreggiamento. Ma anche in questo caso si cerca di fare il minimo indispensabile. Descrivendo il momento in cui i magistrati gli hanno messo davanti lo schedario con le foto dei presunti appartenenti al gruppo dei Santapaola cateonoti che si presentavano per riscuotere il pizzo, stando ai racconti di Vinciguerra, il titolare della tabaccheria rivela alla moglie: «Uno glielo dovevo dire per forza di quei tre che ha detto lui. Gli ho detto (al magistrato, ndr): “Ma io gli altri neanche li conosco”. Allora si è accontentato».
Affrontati gli interrogatori, davanti ai due si palesa un dilemma shakespeariano: cosa fare adesso? Pagare o non pagare? «Se tu non paghi più gli fai capire che hai parlato. Questo è il problema», riflette l’uomo. Che poi un aspetto positivo in quelle indagini lo trova. «Per questa volta ci siamo risparmiati una rata, no? Perchè a giugno dovevano venire e non sono venuti. Quindi a dicembre, se vengono… può darsi che non viene più nessuno».
In un’altra circostanza, a essere presa di mira da fine anni Novanta è stata una farmacia. Il pizzo ammontava a 500 euro a Natale e 750 a Pasqua. In alcuni casi, a invitare al pagamento è stata la moglie di un affiliato. «Mio marito vorrebbe farle gli auguri», era la frase con cui la donna si presentava. Tanto bastava per organizzare un incontro fuori paese e consegnare il denaro. A confermare questa versione ai magistrati è stato anche un docente universitario, stretto familiare della titolare. L’uomo ha anche raccontato che in principio – tra il 1997 e il 1998 – un giovane collaboratore della farmacia aveva cercato di mediare la richiesta estorsiva tramite alcune «amicizie a Catania», persone che, secondo il pentito Vicinguerra, rappresentavano «agganci buoni con la famiglia Santapaola». Stando a quanto risulta a MeridioNews, il giovane collaboratore negli anni a seguire, oltre a essersi messo in proprio, ha avuto anche un esperienza da consigliere comunale in uno dei centri della provincia.